
Il 4 novembre, altro che celebrazione della vittoria, si è trasformata nella festa della dis-unità nazionale. Venti regioni in rotta di collisione con il governo centrale sulle chiusure anti-covid differenziate per i territori, nonostante le dichiarazioni di principio, le trattative snervanti, gli interventi in prima persona del presidente della Repubblica. E sulla sponda opposta dell’Atlantico qualcosa di ancora più grave, che però ci coinvolge tutti da vicino. La messa in discussione dell’unica religione secolare ancora viva dopo la scomparsa delle ideologie novecentesche, ovvero la democrazia degli americani, così come l’hanno scolpita i padri fondatori e l’ha descritta 180 anni fa Alexis de Tocqueville. Doveva trionfare dopo il 1989, a segnare la fine della Storia. Ora invece l’inventore di quella sciagurata formula, Francis Fukuyama, consiglia addirittura di lasciar perdere. «Fossi negli europei eviterei di fare affidamento sugli Stati Uniti. Meglio che l’Europa si attrezzi a essere il più possibile indipendente» (La Stampa, 5 novembre).
Trump, King Donald come l’ha chiamato l’Economist, è stato licenziato dagli elettori americani, come faceva lui con i concorrenti del suo show televisivo: You ’re fired. Ma, al tempo stesso, ha incendiato il suo paese, con uno strappo senza precedenti. In nome della paura.
«Se ci si domandasse che cos’è che abbiamo trovato di veramente nuovo in quel paese sempre nuovo, risponderemmo: la paura. La paura a essere costretti domani ad avere paura», scriveva Alberto Moravia in un lungo reportage pubblicato dall’Espresso il 7 luglio 1968. L’anno degli omicidi di Martin Luther King e di Robert Kennedy, delle rivolte dei neri nei ghetti, delle contestazioni dei campus studenteschi contro la guerra in Vietnam e degli scontri di piazza brutalmente repressi dalla polizia attorno alla convention democratica di Chicago (oggi il film di Aaron Sorkin racconta il processo-farsa che ne seguì).
«C’è un senso di insicurezza fisica e per niente immaginaria», annotava Moravia nelle sue corrispondenze raccolte in un volume appena uscito che l’editore Bompiani ha titolato con ottimo tempismo “L’America degli estremi”. «Questo senso di insicurezza è aggravato dal disordine tumultuoso delle elezioni, in altri tempi pieno di vitalità e di democratica allegria, ma quest’anno reso angoscioso... l’enorme, fluttuante e infantile middle class americana si sente tradita (e lo è) dal sistema democratico al quale aveva accordato tutta la sua fiducia. Questo sistema le sembra che non funzioni più in senso democratico».
La paura americana del 2020 non è la stessa del 1968. C’è qualcosa di sempre nuovo nel paese sempre nuovo ed è la qualità di questa paura nuova. La paura su cui Donald Trump ha lungamente investito è quella del XXI secolo: la paura della globalizzazione, la paura dell’uomo bianco di essere sostituito, il cambiamento demografico che porta allo sconvolgimento degli equilibri di sempre.
Da ultimo, la paura del “virus cinese”. Che già a chiamarlo così significa tramutare una malattia che invade gli organi interni nell’arma di una potenza straniera contro cui combattere. E quindi spostare il fronte: dalla prevenzione sanitaria e dalla necessità di un servizio sanitario in grado di curare il virus alla guerra contro il nemico esterno. Sull’altro fronte, a portare Biden al primo posto nel voto popolare è stata soprattutto la necessità di impedire un secondo mandato per il presidente più divisivo di ogni tempo, sprezzante delle istituzioni e dei valori comuni, incapace di prendere le distanze dalle pulsioni suprematiste, razziste, complottiste, fascistoidi, violente del suo elettorato: vedi Marjorie Taylor Greene, la neo-deputata repubblicana appartenente alla setta Qanon, che ha vinto in Georgia con uno spot in cui fa riprendere mentre spara con un fucile a precisione verso i confini aperti, il socialismo, il green new deal, il controllo delle armi. Spaventoso: ancora una volta, più che la visione o il carisma del candidato, a giocare è stata la paura.
La doppia paura ha portato gli americani a un voto sconvolgente e spiazzante, ancora una volta imprevisto dalla totalità dei sondaggisti. Il numero dei votanti, oltre 150 milioni, la più alta percentuale dell’ultimo secolo. In voti popolari Joe Biden ha raccolto 72 milioni di elettori, in termini assoluti più di Ronald Reagan e di Barack Obama, ma Trump ha superato i 68 milioni, sei milioni in più di quanti ne avesse raccolti nel 2016. A conferma che il trumpismo non è una parentesi, la versione americana dell’invasione degli Hykxos, una meteora: non lo è in America, non lo è in Europa e neppure in Italia. È una ideologia, l’ideologia della Divisione e della Disunità. La religione della sfiducia verso lo Stato, il risentimento verso ciò che è pubblico, l’indignazione nei confronti di tutto quello che può assomigliare alla politica: i partiti, le istituzioni, la stampa e i media mainstream, la cultura, le organizzazioni di rappresentanza.
Della ideologia della divisione e della rottura il trumpismo si abbevera, negli strappi delle regole formali e sostanziali di convivenza il trumpismo cresce, prospera, e può farlo anche con Trump fuori dalla Casa Bianca. Il mancato riconoscimento del risultato elettorale favorevole a Biden è solo un tassello di questa strategia. E il leader democratico si trova nella scomoda posizione di essere il candidato più votato dalla storia, ma anche il più debole perché la sua strategia di ricucitura è fallita, almeno in chiave elettorale. La Nazione americana ne esce più divisa che mai. È spaccato il Congresso, con il Senato repubblicano e la Camera democratica, è spaccata la società, stato per stato, contea per contea.
Gli Stati Uniti, oggi più che mai, rappresentano un Occidente assottigliato. E sono l’immagine di un mondo diviso, proprio nel momento in cui ci sarebbe un bisogno assoluto di unità.
Marciano i cavalieri dell’Apocalisse. L’Europa torna a essere attraversata dall’incubo del terrorismo di matrice islamica. La strage orrenda nella cattedrale di Nizza cui è seguita la notte di Vienna, secondo un timing che è insieme pianificato e spontaneo (Lirio Abbate ne parla sull'Espresso), con l’Italia che rischia di essere la porta di passaggio verso l’Europa dei nuovi radicalizzati: benzina per la propaganda dei Salvini e delle Meloni in crisi di argomenti.
Nel momento di maggiore debolezza delle leadership politiche europee, aggredite dal covid. La pandemia strema la salute non soltanto degli individui, ma anche dei corpi sociali. E le situazioni estreme come quella che stiamo vivendo dall’inizio del 2020 dividono, lacerano, trascinano il corpo sociale in direzioni opposte. È lo scenario privilegiato per le soluzioni semplificate, la caccia al nemico, l’odio per chi ti sta vicino che può trasformarsi in un pericolo. In una parola, il terreno preferito dalla destra mondiale, se per destra intendiamo anche rifiuto delle mediazioni e delle complessità, eclisse della responsabilità collettiva che va respinta per lasciare il posto agli istinti individuali.
Ma anche a sinistra, anche in Italia, per molti anni si è fatta largo la scorciatoia antipolitica, come se l’unica identità possibile per un leader - che si tratti di un premier, di un segretario di partito o di un presidente di regione o di un sindaco - fosse quella di rivolgersi direttamente agli elettori, scambiati a loro volta per un popolo indistinto. Lo dimostrano i rappresentanti delle regioni in questi giorni, impegnati a difendere i loro territori come capi ultras, impossibile distinguere tra di loro la destra e la sinistra.
Dimenticando però che quando cade questa distinzione è la destra radicale che vince. A dire che cosa sia il popolo è stato un leader della sinistra, Walter Veltroni, in una sede non politica, i funerali di Gigi Proietti. «Voleva che ciò che è bello non fosse visto solo da un’élite. Era un intellettuale popolare», ha detto Veltroni. Su questo, sull’esigenza di portare la cultura in periferia, il grande attore aveva scritto nel 2015 per l’Espresso un ironico sonetto che qui ripubblichiamo, oggi che i teatri sono di nuovo chiusi.
Purtroppo intellettuale popolare suona come un ossimoro, due parole che insieme non possono stare. Così come politico popolare, una volta che si sono scissi i termini: il politico è semmai diventato populista, che di popolare è l’opposto. Il politico populista è il truffatore del nostro tempo, vive di rotture. Il politico popolare si propone di ricucire: nel Novecento le tradizionali fratture, i cleavages individuati dai politologi Stein Rokkan e Seymour Lipset tra città e campagne, religiosi e laici, operai e borghesi. Oggi è molto più complicato perché le fratture sono atomizzate, coincidono quasi con le singole identità individuali: sono di genere, di generazione, di orientamento sessuale, sono il risultato di discriminazioni e disuguaglianze, sono il filo che ciascun governante è costretto a interpretare. Ma sono anche il culto del particolare che ogni lobby o categoria o gruppo di pressione esercita sulla politica, incurante dell’interesse generale o del bene comune.
Tutto questo non è teoria, è la pratica politica del nostro tempo e della nostra Italia. La prima ondata del virus aveva unito il Paese in modo effimero, la seconda ondata lo sta dividendo, fa emergere lo sfaldamento sociale e politico. Sergio Mattarella ha messo in gioco il suo ruolo istituzionale e il suo prestigio personale per arginare il virus della divisione. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, per la prima volta da mesi, ha lanciato qualche segnale di dialogo all’interno della maggioranza e nei confronti dell’opposizione. E invece questa classe dirigente, di cui fa parte il Consiglio dei ministri ombra formato dai presidenti di regione ma anche il centrodestra di stampo trumpiano, naviga a vista, con i numeri della pandemia sempre più drammatici, il covid che avvelena la quotidianità e l’attesa di qualcosa che non può arrivare.
Si aspettava da Oltre Atlantico una speranza, ma il flebile segnale incarnato dal voto per Joe Biden assomiglia alla ricerca del vaccino anti-covid, ancora troppo presto per dichiararlo una realtà. Il vaccino che salva la democrazia si chiama rappresentanza, partecipazione, responsabilità, condivisione. E forse ha ragione Fukuyama: gli europei e gli italiani devono smettere di cercare i modelli da fuori, meglio fare ricorso alle risorse interne, se ancora ci sono.