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Politica
aprile, 2020

Anche la democrazia è finita in ospedale. E aveva già patologie pregresse

L'emergenza sanitaria, la debolezza dei sistemi liberali, il ruggito dei sovranismi. Un intreccio che può far paura. Eppure da questa fase possiamo uscire con nuovi anticorpi. Partecipativi e di genere

C’è un altro grande malato in questa pandemia globale: la democrazia liberale. Ma il coronavirus è un fattore di crisi delle democrazie o più semplicemente un acceleratore di una crisi già in atto?

Lo storico israeliano Yuval Noah Harari ci ha ammoniti sui rischi legati al post-coronavirus. In particolare, sul ritorno di fiamma dei nazionalismi e autoritarismo in tutte le democrazie liberali. 

A guardare però come i governi democratici occidentali hanno affrontato la crisi, viene il dubbio che il coronavirus abbia messo a nudo tutte le fragilità del nostro sistema, che da qualche decennio è sottoposto a stress-test che minano la fiducia dell’opinione pubblica. 

Ora se è vero che ‘la democrazia è il governo della crisi’ [Urbinati 2013], le democrazie liberali si sono trovate di fronte una crisi inaspettata e ignota, la cui soluzione richiede talvolta la deroga ai principi costituzionali con il rischio di mettere in competizione il diritto alla salute con inviolabili libertà individuali. 

Non solo. Se c’è una cifra comune in tutti i Paesi liberali in cui la pandemia ha agito è averli costretti a muoversiin un territorio ignoto, fatto di tentativi e quindi inevitabilmente di errori macroscopici.

L’abbiamo visto in Italia: le classi dirigenti del Paese in due mesi sono passati dalla sottovalutazione del pericolo, al lockdown invocato da tutti, fino alle polemiche di queste ore, dopo il messaggio di Conte sulla fase due. Ma non sta andando diversamente in Francia o in Spagna, per non parlare del Regno Unito o degli Stati Uniti. 

In tutti questi Paesi, però, chi è al governo sta godendo di una crescita generale del consenso personale. 
Tutti i sondaggid’opinione in Italia registrano il consenso di Conte superiore al 60% (per Ipsos è al 66%, +18% rispetto a febbraio). Secondo Morning Consult, da gennaio a marzo Trump ha guadagnato 3 punti, Johnson 13, Macron 7, Trudeau 6.  

Certamente siamo di fronte all’effetto “rally round the flag”, ovvero lo stringersi attorno alle leadership nel momento di crisi e di preoccupazione generalizzato, ma c’è di più. Il processo di disintermediazione ha permesso alle diverse leadership di far sentire la loro presenza più prossima all’opinione pubblica, in un momento di difficoltà e sconforto. 

Allo stesso tempo i cittadini hanno potuto mostrare apprezzamento o dubbi rispetto alle scelte dei governi attraverso piattaforme digitali e social media, che sono canali privilegiati di informazione e condivisione delle notizie.

Questo rapporto privilegiato, individualizzato, non mediato, restituisce alle leadership un quadro frammentato di miriadi di opinioni, sentimenti e idee, estremamente volubili. 

Il rischio, lo abbiamo visto in questi giorni, è quello di inseguire il consenso o di far confliggere il parere degli esperti e degli scienziati con le necessità dei vari gruppi di pressione pubblica. In Italia la polemica riguarda le funzioni religiose, in Francia la riapertura delle scuole. 

Se il peso dell’opinione pubblica incide da tempo sul processo decisionale nelle democrazie liberali, la volubilità del consenso non è una novità legata al coronavirus. In questi ultimi anni abbiamo visto l’ascesa e la caduta, entrambe rapidissime, di leader di governo e di opposizione in Italia, in Europa e al di là dell’Atlantico. 

Non c’è dubbio che i fattori della disintermediazione e della frammentazione dell’opinione pubblica abbiano agito profondamente in questi fenomeni politici, tanto in fase ascendente quanto in quella discendente. 

Sono venuti alla luce i limiti della democrazia deliberativa, nella stagione dell’urgenza delle risposte immediate, e allo stesso tempo l’impossibilità di ridurre a sintesi innumerevoli interessi, in assenza di luoghi che gestiscano il conflitto politico, economico e sociale.

Discorso a parte andrebbe fatto sulla Germania.

Angela Merkel ha guadagnato in questi mesi - sempre secondo Morning Consult - oltre dieci punti percentuali; ha mantenuto una linea governativa coerente dall’inizio della pandemia e ha parlato il linguaggio della verità su rischi e opportunità legati al coronavirus, senza farsi influenzare dalla volubilità dell’opinione pubblica. 
Alcuni pensano che questo dipenda dalla formazione scientifica della cancelliera, altri lo legano alla struttura delle istituzioni non solo sanitarie della Repubblica federale.

Entrambi questi ragionamenti sono corretti, resta un’ulteriore punto di forza:Merkel è cancelliera da 15 anni, ha modellato un Paese e un intero continente secondo i dettami della sua politica, e pur interessata alla sua successione, non è ossessionata dal risultato delle prossime elezioni

Infine, elemento non trascurabile, come ha fatto notare  The Guardian: i Paesi che hanno reagito meglio alla pandemia sono tutti guidati da leadership femminili. Nonsolo la Germania, ma anche la Nuova Zelanda, la Finlandia, la Danimarca, l’Islanda, la Norvegia e Taiwan.

Ritornando quindi ad Harari, certamente la pandemia mette in crisi le democrazie liberali nei principi, nella capacità di compiere le scelte corrette e nel rapporto con l’opinione pubblica. Allo stesso tempo è un acceleratore più che la causa della crisi. 

Se cerchiamo il modo per proteggere le democrazie liberali, possiamo trarre diverse lezioni da come i governi stanno gestendo il coronavirus. 

La prima, rafforzare le strutture democratiche e la fiducia nelle istituzioni attraverso nuovi percorsi di partecipazione dei cittadini. 

La seconda, ridefinire soggetti e corpi intermedi dove risolvere i conflitti e ripensareprocessi di re-intermediazione nel rapporto tra leadership e opinione pubblica. 

Infine, promuovere e sostenere nuove leadership femminili, e non solo per una questione di genere.

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