Un russo arrestato a Napoli è accusato dall’Fbi di aver sottratto segreti industriali. E il ministro deve decidere se estradarlo negli Stati Uniti sfidando l’ira di Putin oppure rimandarlo in patria

Il ministro Alfonso Bonafede
L’Italia era sulla frontiera della vecchia Guerra Fredda mentre adesso si trova in una posizione ancora più scomoda: deve fare da arbitro di uno degli intrighi più complicati ed esplosivi, che mette Washington e Mosca ai ferri corti. Una spy story tra affari milionari e interessi strategici si sta consumando a colpi di domande di estradizione e imputati contesi, con un italiano usato come cavallo di Troia da un magnate russo per rubare segreti aeronautici a un gigante tecnologico americano: in mezzo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che dovrà decidere se e per chi immolarsi.

Tutto inizia un venerdì di fine agosto dell’anno scorso. In tarda mattinata all’aeroporto di Capodichino atterra da Mosca una coppia di turisti. È pronta a tuffarsi in un fine settimana all’insegna della dolce vita tra i faraglioni di Capri, cene in Piazzetta e shopping nelle boutique di lusso davanti alla villa dello scrittore Maksim Gorkij, l’ispiratore dei bolscevichi che ha vissuto qui il suo esilio. L’uomo venuto dall’Est ha modi distinti; parla inglese, francese e turco, porge con un sorriso il passaporto per i controlli. Ma il suo nome fa lampeggiare l’alert sui monitor della polizia di frontiera: contro di lui c’è un mandato di cattura internazionale, diffuso dalla sezione controspionaggio dell’Fbi.

Si chiama Alexander Yuryevich Korshunov, è il direttore dello sviluppo aziendale di Odk, conosciuta anche come United Engine Corporation, società della Federazione russa specializzata nella progettazione e produzione di motori per l’aviazione militare e civile. Fa parte del colosso statale delle armi Rosetec, una sorta di Iri della tecnologia bellica che possiede la fabbrica dei kalashnikov, quella di tutti gli elicotteri da combattimento e degli strumenti da guerra elettronica. Un’azienda doppiamente importante per il Cremlino: è la punta avanzata dell’hi-tech russo e la fucina delle esportazioni più ricche. Non sorprende quindi che Korshunov non sia “solo” un manager: si è formato nel Svr, i servizi segreti esteri, ha un passato come diplomatico ed è stato insignito persino della medaglia «per merito della patria». 
Alexander Koshunov

L’Fbi gli stava dietro da sei anni. Lo accusa di aver rubato documenti preziosi alla General Electric Aviation, il più importante produttore di motori per aerei: il tribunale dell’Ohio parla di «cospirazione al fine di sottrarre segreti industriali». Odk è il perno del programma industriale Pd-14, che prevede la costruzione di un propulsore innovativo a basso impatto ambientale destinato ai velivoli civili da trasporto, presentato come la risposta russa ai Genx che fanno volare l’ultima generazione di Boeing. Si tratta di uno strumento vitale per il Cremlino. Dopo la fine dell’Urss infatti, a Mosca hanno continuato a produrre e sviluppare motori per jet da guerra - esportati in grande quantità - ma hanno smesso di progettarne per velivoli civili: anche Aeroflot oggi usa Boeing o Airbus. E i tentativi di realizzare modelli nazionali si scontravano con la mancanza di motori moderni e affidabili. Un freno che il Pd-14 può risolvere, permettendo pure di modernizzare la flotta di cargo militari Ilyushin che sono le ali dell’Armata rossa.

Secondo l’Fbi, però, i russi avrebbero cercato una scorciatoia, usando l’antica arte dello spionaggio. Korshunov avrebbe messo gli occhi sulla General Electric Aviation System e sulla controllata italiana Avio Aero - 4mila addetti tra Rivalta di Torino, Brindisi e quella Pomigliano d’Arco, collegio elettorale di Luigi Di Maio - per ottenere un sistema fondamentale: il riduttore, che trasmette la potenza del motore alle eliche. Così avrebbe agganciato un professionista italiano, Maurizio Paolo Bianchi, sessantenne abruzzese ex dirigente di Avio con entrature nei mercati cinesi e russo. Bianchi non ha difficoltà a reclutare progettisti. Il denaro per convincerli non è un problema. Così - secondo l’accusa - la missione è compiuta, il segreto violato.

Sei anni di indagini riassunte in una deposizione giurata dell’agente speciale Michael Runners che ha raccolto prove, mail, ricostruito incontri, contatti e le confessioni di alcuni tecnici indicati in forma anonima “dipendente 1, 2, 3”. La prima traccia dei contatti tra Bianchi e Korshunov risale al 26 aprile 2013. Si scambiano una mail. Domande per le quali “the guys”, “i ragazzi” chiedono “chiarimenti”. Inizia qui per i federali il “lavoro” dell’italiano per conto del russo: «Assumere dipendenti o ex della consociata italiana di Ge Aviation, per svolgere attività di consulenza relative ai cambi di accessori per motori a reazione». L’operazione si concentra sulle accessory gearboxes prodotte da Avio Aero, che forniscono potenza a sistemi come pompe idrauliche, di carburante e generatori. Alta tecnologia ad uso civile, ma convertibile nel settore militare. Cifre da capogiro che uno scambio di mail del maggio 2014, tra Bianchi e altri due professionisti, quantifica in 22 milioni di euro. Per gli inquirenti è il passaggio di una sfida commerciale a livello mondiale, che i russi avrebbero truccato grazie ai segreti rubati da Bianchi e dai suoi “guys”.  Gente «con un background impressionante, pronta a lavorare a tutto gas», constata il manager russo. E infatti danno risultati. Lui è entusiasta: comunica il suo «feedback positivo sui documenti»; trascorre diversi periodi tra Torino, Bologna e Milano; organizza incontri con i consulenti e ne paga le spese; si vedono anche al Paris Air Show di Le Bourget, in Francia.

In una prima fase, fino al 2016, avrebbero fornito un rapporto tecnico con i miglioramenti per il progetto Pd-14. Poi dal 2016 al 2018 il russo avrebbe chiesto al team di lavorare sul sistema di trasmissione per motori ancora più grandi da applicare alla produzione dei Pd-35 russi.
I brevetti ottenuti dalla “consulenza” sarebbero diventati alla fine di proprietà del ministero dell’Industria di Mosca. Trasferiti, grazie a un contratto stipulato dalla Aernova - una società creata da Bianchi alla periferia di Forlì e usata, secondo le accuse, come copertura per lo spionaggio industriale - a Aviadvigatel, filiale di Odk, inserita dal dipartimento del Commercio statunitense nella lista nera per la sua condotta contraria alla sicurezza nazionale americana.
Vladimir Putin

Qualche giorno dopo l’arresto di Korshunov, in Italia si insedia il governo Conte II e gli piomba addosso il primo guaio diplomatico. I neo ministri degli Esteri Di Maio e della Giustizia Bonafede trovano sulla loro strada l’amico del governo giallo-verde che fu: Vladimir Putin. Il presidente è personalmente infuriato per l’arresto del manager che conosce dai tempi dei servizi segreti. Dal forum economico orientale di Vladivostok ipotizza «ripercussioni sui rapporti bilaterali». Protesta e prospetta rappresaglie: sono gli americani a giocare sporco, pronti a colpire con indagini e arresti la concorrenza. E l’Italia li sta aiutando: «È un atto ostile. Una pessima pratica che complica le relazioni tra gli Stati. Abbiamo firmato un contratto con una società italiana per delle consulenze, è una pratica naturale in tutto il mondo, non abbiamo bisogno di rubare nulla».

Mosca vuole che Roma neghi l’estradizione negli Usa, lì Korshunov rischia dieci anni di carcere. Semmai lo devono consegnare alla madrepatria, che dopo l’arresto gli contesta di aver sperperato un’ingente somma di denaro per consulenze definite «di nessun valore». Sono i 150mila euro inizialmente pattuiti tra Aviadvigatel e Aernova. Un atto di accusa che assomiglia a una scialuppa di salvataggio per riportare il compagno a casa senza troppi danni.

Korshunov si professa innocente, ma è favorevole: meglio tornare da Putin che finire nelle mani del nemico. I funzionari dell’ambasciata accampati a Napoli lo seguono in ogni passo. Trascorre mesi dentro al carcere di Poggioreale, prima in isolamento e poi nel padiglione Milano con altri detenuti russi, quindi ottiene gli arresti domiciliari anche se l’intrigo internazionale si scontra con la burocrazia tutta italiana: non ci sono braccialetti elettronici disponibili. Alla fine riesce a festeggiare il suo 58simo compleanno in un appartamento, affittato dalla moglie, al Centro direzionale tra i grattacieli realizzati dall’architetto giapponese Kenzo Tange.

Il giorno della cattura il socio Bianchi è in Portogallo dove risiede da tempo. Avverte l’ambasciata, il ministero, i magistrati e ritorna a Roma. Comunica il suo indirizzo, si aspetta che lo vengano a prendere. Ma nulla. Per 20 giorni non si presenta nessuno. I carabinieri bussano alla sua porta solo il 1 ottobre, mentre il capo della diplomazia Usa Mike Pompeo è in visita nella Capitale e incontra Di Maio. Bianchi però rimane in cella solo una notte. Poi su di lui è calato il silenzio. Giura di non aver commesso illeciti e ora è in attesa della decisione della Corte d’Appello di Roma. Corre il rischio di finire in un carcere oltreoceano a scontare una pena esemplare, mentre in Italia se la caverebbe al massimo con due anni di reclusione. Per il russo i giudici hanno stabilito che non ci sono ragioni per negare l’estradizione negli Usa: la Cassazione si è limitata a rimandare la decisione al ministro della Giustizia. E il principio rischia di essere lo stesso anche per Bianchi, altrimenti Korshunov potrebbe presentare ricorso. La parola fine spetta insomma al governo italiano. 

È chiaro che la Casa Bianca attende il verdetto come una prova di fedeltà atlantica. La scelta del premier Conte di invitare una missione militare di soccorso russa contro il Covid, diventata uno strumento di propaganda mondiale contro gli Usa, non è stata dimenticata: siamo stati l’unico Paese a chiedere aiuto al Cremlino e non alla Nato. E i rapporti della nostra intelligence che denunciano le interferenze russe nelle vicende interne del nostro Paese sono arrivati fino al Comitato parlamentare Copasir. Senza dimenticare la ferita aperta del Russiagate, con il sospetto di coperture agli incontri romani tra il professore maltese Joseph Mifsud - il docente della Link University mai rintracciato dagli americani - e il più giovane dei consiglieri dell’allora candidato alla Casa Bianca.