Per evitare l'implosione del sistema politico serve un patto per il Mattarella-bis
L'emergenza economico-sociale, i cittadini nell’incertezza, i partiti in disarmo. E il voto del 20 settembre che può portare le istituzioni nel baratro e a una crisi di sistema. C'è solo un modo per superarla
di Marco Damilano
24 agosto 2020
Sergio MattarellaCoincidenze significative, o enigmatiche correlazioni, le avrebbe chiamate Leonardo Sciascia. Mario Draghi, l’ex presidente della Banca centrale europea, e Marta Cartabia, la presidente della Corte costituzionale, hanno scelto lo stesso giorno (martedì 18 agosto) per citare lo stesso personaggio e la stessa fonte: Alcide De Gasperi e le sue Idee ricostruttive del 1943.
«La riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse», ha osservato Draghi parlando di fronte alla platea (ristretta) del Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. «La ricostruzione che egli propone è un metodo che parte dal dato di realtà, confida nella forza dei fatti e segue le tracce presenti nella storia, così come si presenta», ha spiegato la presidente Cartabia nella lectio che ogni anno la fondazione De Gasperi organizza in occasione dell’anniversario della morte dello statista trentino.
Quel testo del 1943, le Idee ricostruttive, erano in realtà un manifesto di partito, ricostruire la Democrazia cristiana dopo la caduta del fascismo prima che la democrazia italiana. La prima copia fu consegnata al siciliano Bernardo Mattarella, che aveva partecipato a Roma alle riunioni di rifondazione del partito cattolico, il padre dell’attuale presidente della Repubblica. Un’altra coincidenza significativa, ancora una enigmatica correlazione, poiché Draghi e Cartabia sono spesso indicati tra i possibili successori di Sergio Mattarella al Quirinale quando si voterà, nel 2022.
Ricostruire nell’età della grande incertezza (L’Espresso, 9 agosto), così definita da Mario Draghi nel suo intervento, visto da alcuni come una rivelazione messianica, la manifestazione del salvatore della Patria, da altri come un avviso di sfratto per l’attuale inquilino di Palazzo Chigi: «Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di essere noi a controllarla. Perderemmo la strada».
Essere governati dall’incertezza, e non governarla, è la condizione in cui si trova l’Italia alla fine dell’estate sospesa, tra controlli, quarantene, discoteche straboccanti e poi chiuse e tanti interrogativi per il domani. Sulla riapertura delle scuole, il fronte più caldo, su cui lo Stato italiano si gioca il suo onore e il governo la faccia e forse qualcosa di più, la data del 14 settembre è ormai drammaticamente vicina e nell’attesa va registrato, nelle dichiarazioni del premier e dei ministri, un impercettibile scivolamento delle parole pronunciate: dalla certezza che le scuole riapriranno alla certezza che il governo sta facendo di tutto per garantirne la riapertura. Che non è esattamente la stessa cosa.
Sullo sfondo c’è la grande rimozione, cui dedichiamo la copertina di questa settimana, con il viaggio di Linda Caglioni e Paolo Arnoldi tra gli oggetti lasciati dai morti del covid nella provincia di Bergamo, nei luoghi dove il male si è accanito con più virulenza sei mesi fa. Cappelli, zaini, magliette di calcio, occhiali, il rasoio di un barbiere, la macchina da cucire. Sono oggetti che raccontano di un’Italia antica e ora invisibile. Non si vedono le persone che si identificavano con questi oggetti e che non ci sono più. Non si vede la ferita già rimossa, di cui parla Donatella Di Cesare, addirittura negata dal popolo no-mask, perché una morte che non si vede è come se non ci fosse, è anonima, senza volto e senza storia. DAMILANO_WEB Per questo oggi è ancora più necessario di ieri restituire un nome agli oltre 35 mila morti italiani del Covid, prima che diventino nel dibattito pubblico fantasmi mai esistiti. Le vite umane perdute e le tante vite umane salvate sono il nostro lessico quotidiano di questo anno tragico, non possiamo mai dimenticarlo. Così come non possiamo ignorare le emergenze che attendono la ripresa. L’emergenza sociale, con le sue conseguenze sulla gestione dell’ordine pubblico. L’emergenza economica, con il piano per il Recovery Fund che si avvicina e i dubbi in aumento. L’emergenza lavoro, con gli incidenti in aumento eil provvedimento di regolarizzazione che non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva. E le conseguenze sulle città, di cui parla Saskia Sassen con Giuliano Battiston.
A queste emergenze ne va aggiunta una tutta italiana che le riassume tutte: l’emergenza politica e istituzionale. Oltre al 14 settembre, data prevista per la riapertura delle scuole, c’è la data del 20-21 settembre, elezioni regionali e referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Sul No al taglio di deputati e senatori intervengono in questo numero Alberto Asor Rosa e Sofia Ventura. C’è molto altro da dire su questa strana campagna elettorale. Il fronte del Sì, che in Parlamento ha raccolto la quasi unanimità dei consensi e che potrebbe contare su un facile argomento populista (meno parlamentari uguale meno sprechi e meno furbetti), resta invece stranamente in sonno. È una campagna del silenzio, se non della vergogna.
In imbarazzo, soprattutto, il Pd che si trova in contraddizione con se stesso. Da partito della stabilità, architrave dell’equilibrio istituzionale previsto dalla Costituzionale repubblicana, a partito che sacrifica sull’altare dell’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle quel ruolo di garanzia delle istituzioni che ha occupato da tempo. Anche nell’alleanza giallorossa che ormai compie un anno, come in quella gialloverde, M5S si conferma un partito specchio. Messo a contatto e al governo con la Lega di Matteo Salvini, M5S ne aveva assorbito le pulsioni securitarie, il volto di destra. Al governo con il Pd, il M5S ha riposto nel cassetto dieci anni di contestazione anti-europea: anche i più feroci critici del governo Conte 2 devono avere l’onestà intellettuale di ammetterlo.
Ma in compenso ha trascinato il Pd e il resto della sinistra parlamentare ad abbracciare una cultura delle istituzioni avventurista perché à la carte, senza visione, come viene. Non c’è nessun pericolo di deriva autoritaria nel taglio dei parlamentari, così come non c’era nella riforma Renzi bocciata dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016. Ma c’è un rischio altrettanto letale: l’estenuazione, lo svuotamento. Il palazzo delle istituzioni può crollare non perché bombardato da un nemico esterno, ma perché corroso al suo interno, può venire giù per cedimento strutturale, per implosione. E il Pd che assiste a una minaccia del genere senza intervenire, con superficialità, senza avviare almeno un dibattito interno, è un partito che viene meno a un pezzo importante della sua identità. È un partito che segue le riforme degli altri e che non riesce a imporre la sua. È un partito che accetta l’indebolimento delle istituzioni e che non si batte per il loro rafforzamento. E sarà la prima vittima di un cambiamento non governato ma subito.
Nella ipotesi probabile che i Sì vincano con largo margine bisognerà guardare al dopo. Un Parlamento mutilato, un esecutivo presieduto da un personaggio mai votato da nessuno ma appoggiato da importanti settori degli apparati di Stato e da influenti comunicatori, partiti in disarmo, società nella incertezza: sono gli ingredienti di una possibile crisi di sistema, al pari di altre fasi della storia repubblicana. In quei momenti drammatici si attivarono gli anticorpi democratici. Nell’estate di sessant’anni fa, il 1960, il governo dell’elegante Fernando Tambroni che aveva tentato la svolta autoritaria fu bloccato dalla piazza, con il ritorno dello spirito costituzionale e anti-fascista (un passaggio ben ricostruito del libro di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone, “1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile”, pubblicato da Mondadori). Oggi gli anticorpi non ci sono più e la breccia del voto del 20 settembre, centocinquanta esatti dopo la breccia di Porta Pia che portò a conclusione l’unità nazionale, può trasformarsi nell’avvio di un processo di disunità, di disgregazione, può diventare un buco che inghiotte il sistema. Dopo la valanga dei Sì, se ci sarà, comincerà la campagna della destra contro il Parlamento delegittimato, per tornare al voto subito. E anche una possibile campagna contro il presidente della Repubblica, di cui si vede già qualche segnale sulla rete.
Per questo è necessaria, fin da ora, una strategia politica che eviti che la breccia diventi buco e poi voragine. Il presidente Mattarella ha più volte fatto conoscere il suo pensiero su un eventuale secondo mandato. In uno dei discorsi più importanti e meno conosciuti di questo 2020, quello del 18 giugno al Quirinale per ricordare i magistrati uccisi dal terrorismo e dalla mafia, in conclusione, parlando del caso Palamara e dello scandalo del Csm, Mattarella si è soffermato anche «sui limiti dei poteri» che gli assegna la Costituzione, attaccando chi «incoraggia una lettura della figura e delle funzioni del presidente della Repubblica difforme da quanto previsto e indicato, con chiarezza, dalla Costituzione». E ha concluso: «Non esistono motivazioni contingenti che possano giustificare l’alterazione della attribuzione dei compiti operata dalla Costituzione: qualunque arbitrio compiuto in nome di presunte buone ragioni aprirebbe la strada ad altri arbitri, per cattive ragioni».
La cultura del limite dei poteri è una benedizione in questi tempi di maleducazione istituzionale, la diga che la presidenza Mattarella ha innalzato di fronte a chi evocava i pieni poteri. Un senso del limite che spinge anche a non superare il mandato di sette anni previsto dalla Costituzione. La Costituzione, tuttavia, consente una rielezione del presidente in carica, come è avvenuto con Giorgio Napolitano nel 2013. Un patto politico tra i partiti per confermare l’attuale presidente nel 2022 sarebbe il contrappeso necessario per impedire la voragine dopo il voto del 20 settembre. E consentirebbe di provare a scrivere una nuova legge elettorale che protegga la rappresentanza (colpita a morte dal taglio dei parlamentari) e metta l’elettore in condizione di decidere da chi vuole essere governato.
Serve un tempo in cui avviare le riforme sociali e istituzionali che devono portare all’approdo più naturale, una nuova Costituzione in linea con la costruzione dell’Unione europea che, come ha detto Draghi, è graduale ma inevitabile. È questa la ricostruzione politica. Senza un percorso di questa altezza, restano solo le riforme a caso, il disordine, il caos, lo sminuzzamento dei problemi in cui eccelle l’avvocato-premier Conte. E la eventuale vittoria del sì del 20 non sarà solo una ferita, ma uno sbrego, uno sberleffo che non possiamo permetterci, nell’età della grande incertezza.