Normalizzazione e progresso: è il mantra secondo cui il governo Draghi avrebbe sconfitto il populismo. Ma senza un progetto di emancipazione la democrazia fallisce

In un interessante articolo sulla crisi del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), apparso nel giugno 2019 su Die Zeit, il settimanale tedesco suggeriva al partito di «fare immediatamente ciò che non gli piace: diventare radicale». Per «sopravvivere come forza rilevante» - si leggeva - bisognava rompere la grande coalizione e «sviluppare idee socialdemocratiche per le sfide del digitale, della demografia, del clima e in ambito sociopolitico». «Per dirla in maniera più patetica - chiosava Die Zeit - la Spd deve credere di essere necessaria, e dimostrarlo stabilendo nuove priorità». Vedremo se alle quarantotto pagine del programma di Olaf Scholz - che nelle elezioni di settembre 2021, come candidato socialdemocratico alla Cancelleria, ha portato il suo partito a scavalcare la Cdu-Csu -, pagine che paiono corroborare questa tesi, corrisponderanno i fatti. Certo è che la parabola di Jeremy Corbyn, in era pre-Covid, sembra confutarla.

Sul dato culturale, colto nella conclusione del suddetto articolo, in ogni caso vale la pena soffermarsi: credere di essere necessari. Molti esponenti della sinistra europea, pur consapevoli dei limiti di quella stagione neoliberista che avrebbero voluto dominare, non avrebbero la capacità di ritenersi necessari, sono privi cioè di fiducia in loro stessi e nella possibilità di proporre un’alternativa.

 

 

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Alla radice della sfiducia in sé stessi ci sono due elementi: essere profondamente convinti che non esista un’alternativa; e non avere o non riconoscere in sé la risorsa umana per immaginare e attuare questa alternativa, se pure altre o altri te la prospettano. In questi ultimi due anni, quando con cento donne e uomini del ForumDD abbiamo costruito proposte radicali ma immediatamente attuabili, quante innumerevoli volte abbiamo visto i nostri interlocutori politici distrarsi un momento dal loro percorso, dalle “priorità” di metà giornata e intravedere e persino condividere con noi gli obiettivi e gli strumenti che prospettavamo loro! per poi, però, “tornare alla realtà”, percepire una sorta di impossibilità di imbarcarsi in un disegno più largo. Non stavano “tornando alla realtà”. Come ho sentito con forza dire da Marco Damilano, evocando le favole a rovescio di Gianni Rodari, stavano reimmergendosi nel reality show, che si sentono imposto dal gioco della politica. Sempre più lontano dal rappresentare e utilizzare aspirazioni e saperi reali.

 

Ma soffermiamoci allora sulla parabola di Corbyn, che certo si è confrontato con la realtà, e che credeva in un’alternativa, e che è stato radicale. Lui e i suoi erano convinti delle loro tesi, tanto da trovarvi la forza di realizzare il takeover di un partito, hanno costruito una piattaforma programmatica e hanno tentato di attivare un meccanismo di approvvigionamento del sapere nei territori. Cosa non ha funzionato? Beh, prima di tutto non dimentichiamoci la virulenza, la gaglioffaggine, la penetrazione degli avversari in tutta la stampa, anche progressista. Ma un progetto radicale di redistribuzione di ricchezza, controllo sul sapere, e poteri deve ben sapere che avrà avversari e deve costruire alleanze ampie e forti per contrastarli. E allora?

 

Un’ipotesi avanzata per spiegare l’insuccesso è che quelle tesi programmatiche, giustamente riprendendo le chiavi di lettura appropriate del Novecento, non aprissero tuttavia alle nuove sollecitazioni di questo secolo: alle nuove forme di governo della spesa pubblica attraverso lo sperimentalismo democratico, alle organizzazioni di cittadinanza, al ruolo dei luoghi e delle comunità, all’emergere del mutualismo e della cooperazione che rompe il diaframma fra pubblico, privato e sociale, insomma a quel patrimonio su cui, per dire, il ForumDD e altre reti costruiscono le nuove proposte. Ma questa risposta non convince, perché in realtà esistevano, nel movimento che ha accompagnato l’abbandono della sbornia neo-liberista da parte del Labour, elementi diffusi di questa nuova cultura, sperimentazioni originali in queste direzioni. E allora, forse, possiamo dire meglio che, una volta arrivati in prossimità dell’opportunità vera di governare, sia mancata la fiducia proprio in questi nuovi strumenti, e sia prevalso un vecchio keynesismo, fatto soprattutto - non che non ci voglia... ma non “solo” - di proprietà statale e spesa pubblica. E, a scavare ancora, anche dietro a questa esitazione, starebbe un altro dato: che la svolta non ha innescato un confronto interno produttivo, degenerando viceversa in tentativi di “colpo di stato” contro Corbyn e nell’asserragliamento suo e dei suoi.

 

Questa assenza di un confronto duro ma leale, informato e aperto, “dentro”» il partito, accomuna del resto il Labour di Corbyn ad altri partiti “socialdemocratici”. Nel Pd il confronto sulle idee è evitato o è così strumentale a battaglie di potere da stravolgerne il senso. Ce lo ha descritto vividamente il suo segretario Nicola Zingaretti, dimettendosi. Era avvenuto già con Walter Veltroni. È anche dall’assenza di questo franco confronto che nasce l’atteggiamento “quieta non movere” che ho prima descritto di fronte a ogni proposta radicale di trasformazione: Questa proposta è utopica, non ci sono gli alleati, non ci sono le condizioni, è una rottura che non si può fare. È l’adesione allo scenario di “normalizzazione e progresso” che ho descritto, dove la tecnica continua a sostituire la politica. È il mantra con cui in molti, gran parte della stampa in testa, hanno accolto l’esito delle elezioni amministrative di ottobre: leggendovi il segno di un’inversione di tendenza politica degli italiani contro “sovranismi” o “populismi”, nel peculiare senso, come qualcuno ha scritto, di una “vittoria di Draghi”, ossia della tecnica sulla politica. Trascurando, come ho già detto, che i cittadini alle comunali, confrontano candidati per il governo delle loro città, non giudicano proposte politiche dei partiti o il governo nazionale.

Trascurando che la discesa dei tre partiti che vengono qualificati come sovranisti e populisti (M5S, Lega e FdI) si concentra (da 36,3 a 27,7%) negli stessi Comuni, sei capoluoghi di Regione, dove maggiore è stato il crollo dei votanti (dal 57,6 al 49,4%). Fra un quarto e un terzo di chi vota alle politiche non ha votato alle amministrative, specie nelle aree marginalizzate del paese, ma è alla ricerca di simboli e di strade in cui riversare il proprio malcontento, ed è ben pronto a votare nelle prossime elezioni politiche - sarebbe un fallimento per la democrazia se non avvenisse - influenzandone in modo decisivo l’esito. È una fascia della società a cui dovrebbe rivolgersi un progetto di emancipazione.

 

Quando il ForumDD nel novembre 2019 è chiamato in forze dal Pd a Bologna, su iniziativa di Gianni Cuperlo d’intesa con Nicola Zingaretti, a raccontare le sue diagnosi, visioni e proposte a un’assemblea programmatica, sapendo benissimo che diremo cose franche e controverse per quel partito, e dunque “usandoci” - e noi felici di “lasciarci usare” - per aprire un confronto acceso e aperto, tutto avviene poi più o meno come immaginato: il calore della risposta della platea è francamente superiore a ogni aspettativa, l’ho ancora nel corpo; le reazioni critiche di una parte cospicua del gruppo dirigente; la descrizione delle nostre proposte come «belle ma utopiche... ma poi noi dobbiamo tornare nelle nostre terre, dalle nostre imprese a dire cose fattibili» - sono, più o meno, le parole dell’intervento di punta dei critici fatto dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Bene, penso io, pensiamo noi. Ora inizia il confronto - pensate, prima che esplodesse la crisi sanitaria! - e questo aiuterà quel partito, che ci piaccia o no, a darsi una strategia. E invece no. Si spaventano del confronto. Di ciò che essi stessi hanno organizzato. Ci ringraziano, per carità. E poche settimane dopo, riunendosi tutti, al chiuso, fra loro, archiviano Bologna con un chiaro accordo: evitiamo il confronto delle idee. In pochissimi, Gianni Cuperlo in testa, romperanno la consegna. E, si guardi bene, che con Gori ed altre figure di valore che la pensano come lui non abbiamo mai smesso di dialogare, come si fa fra chi sa stimare. Ma dentro il Pd no. Dentro è vietato.

Ecco perché, il tentativo delle Agorà di Enrico Letta prende il toro per le corna, se davvero diverrà luogo di confronto informato e acceso su proposte concrete alternative.