Chissà se la temporanea riapertura del fu tempio del Pci, via delle Botteghe Oscure 4, c'entra qualcosa con lo spaventoso clima che c’è nel Pd - in specie romano - dilaniato in faide al punto che tutti si proclamano amiconi e in pratica nessuno si parla più. Lasciato dai Ds nel 2000, stravolto dai lavori dei successivi inquilini (solo l’ingresso è identico), il Bottegone tornerà per un attimo a respirare con l’antico mondo: la presentazione, per il centenario del Pci, dell’album di famiglia, "In movimento e in posa", a cura di Marco Delogu e Francesco Giasi, il 15 dicembre, si terrà eccezionalmente nell’atrio del palazzo ora di Angelucci, davanti all’Opera di Giò Pomodoro, alla teca con la Bandiera della Comune di Parigi, la statua-calco di Gramsci sullo sfondo.
Sarà allora per un effetto sabba, stile “Una notte sul Monte Calvo”, nella riapertura di quelle stanze ora color verde mela, disabitate e divise in due, persino quella del segretario: di fatto durante i sopralluoghi per l’evento, organizzato dalla Fondazione Gramsci e dall’onnipresente Ugo Sposetti, le più mefitiche correnti d’aria hanno soffiato nel Pd più forte che mai. Come a mostrare l’abisso incolmabile tra ieri e oggi. Con il sindaco Roberto Gualtieri, già «ragazzo d’assalto di Botteghe Oscure» all’epoca di D’Alema segretario del Pds, descritto oggi da chi li conosce bene come «l’ennesima vittima di Bettini» (dopo Zingaretti, per dire), intento a divincolarsi da consigli su nomine ed altro («decido io!»), che però chiede all’esponente del Pd romano che gli è stato vicino anche in campagna elettorale (immancabile la telefonata, dopo i dibattiti: Goffredo, come sono andato?). Con il governatore Nicola Zingaretti - di cui Bettini è stato mentore sin da quando lo indicò segretario della Fgci romana - principale indiziato, nonostante le smentite, del tremendo racconto sul parapiglia per le nomine a Roma, pubblicato dal Foglio. E, soprattutto, con Goffredo Bettini che, come nei sogni, finisce per essere il vero volto dietro ogni maschera. Ovvero: guardi Gualtieri ma è Bettini, guardi Zingaretti ma è (era) Bettini, guardi Conte ma è Bettini. «Vorrei non essere ulteriormente distratto dai miei impegni pubblici con discussioni che non rientrano negli interessi attuali del mio lavoro», è la linea dell’uomo che come pochi altri ha tessuto le trame romane, sempre protestando di «non occuparsi di Roma». C’è dell’antico anche in questo, visto che Bettini presso taluni compagni s’era guadagnato il soprannome di «Suslov», perché «quando andava da Pietro (Ingrao) dava ragione a Pietro, e quando andava da Paolo (Bufalini) dava ragione a Paolo».
Al Bottegone solo il segretario (e pochi eletti) poteva imboccare dritto lo scalone principale; per tutti gli altri c’era il corridoio sulla destra. Tipica gerarchia, comunista per il senso dei luoghi, oltreché dei ruoli. Ecco a Bettini il partitone ha sempre concesso un ruolo dentro al raccordo anulare: fuori, mai. La storia continua a ricacciarlo là. Compresa la parabola dell’ultimo magnificato, Conte, visto un tempo come prelibatezza, un caviale per la sinistra («punto d’equilibrio», diceva Bettini) e ora come uno che sarebbe capace di presentarsi a casa senza preavviso portando supplì dalla rosticceria. Da candidare al massimo alle suppletive nel collegio di Roma 1 (aridaje), anzi neanche a quelle.