Immaginate una bilancia. Su un piatto i 400 americani più ricchi (il club di Forbes per entrare nel quale bisogna avere almeno 2,8 miliardi di patrimonio) hanno accresciuto di 4500 miliardi - pari al 40% - le loro sostanze nei due anni di pandemia: dagli azionisti di Pfizer e Moderna a Jeff Bezos, boss di Amazon che grazie al boom dell’e-commerce ha triplicato profitti e fatturato. Controllano - sono, ripetiamo, 400 individui per la maggior parte uomini - il 3,5% della ricchezza del mondo.
Sull’altro piatto ci sono 3,7 miliardi di persone, la metà più povera (diciamo meno ricca) della popolazione terrestre: la ricchezza che controllano non supera il 2% del totale. Per gran parte dei “sapiens” la pandemia è stata una doppia sciagura, sanitaria (quasi sei milioni di morti) ed economica: la Banca Mondiale calcola che allo scadere del secondo anno di Covid - fine gennaio 2022 - fra i 100 e i 150 milioni di persone saranno precipitate di nuovo nella povertà assoluta, quella di chi vive con meno di 1,9 dollari al giorno, sovvertendo così trent’anni di faticosissimo recupero. Un contro-Gotha che comprendeva allo scoppio della pandemia 700 milioni di persone e che torna ora ad avvicinarsi pericolosamente al miliardo (erano 2 miliardi nel 1990).
È tempo di bilanci per questi due anni che hanno cambiato il mondo, non in meglio. E che rischiano di prolungarsi, una variante dopo l’altra, chissà quanto. Tutti i centri studi più accreditati - dal “World Inequalities Lab” di Thomas Piketty al “Globalinequality” di Branko Milanovic - stanno uscendo con le loro stime e tutti concordano sull’aggravamento delle diseguaglianze come conseguenza diretta della pandemia, ognuno con una messe di dati incontrovertibili a suffragio. «Pensiamo solo che a rimetterci il posto in tutto il mondo sono stati camerieri, autisti, piccoli commercianti, artigiani, magazzinieri, tutta gente non certo ricca che ha perso ulteriormente terreno rispetto ai professionisti che si sono potuti permettere lo smart working o ai pensionati», commenta Andrea Boitani, economista della Cattolica che alle disuguaglianze ha dedicato buona parte del saggio “L’illusione liberista” appena uscito da Laterza.
«La pandemia è stata un banco di prova tremendo per l’impostazione economica prevalente, che vede il mercato come l’unico faro per creare opportunità. Per fortuna si è compreso che senza l’intervento statale non se ne sarebbe usciti, e dall’America all’Europa gli aiuti pubblici hanno tamponato i danni almeno dal punto di vista economico marcando una svolta che potrebbe essere strutturale». Sarebbe l’occasione per dire la parola fine alle politiche mirate a favorire le classi più alte e le aziende «nell’illusione che dalla loro fortuna derivino ricadute positive a cascata per le classi inferiori e invece ne sono venute solo sempre nuove disuguaglianze», accusa Lucas Chanel che ha lavorato con Piketty per il suo rapporto.
Un’inversione di tendenza con il ritorno alle dottrine di Keynes è l’unico Grande Reset imposto dalla pandemia. L’aiuto pubblico è indispensabile per aiutare i tanti rimasti indietro: in Europa sono arrivati con la pandemia a 20 milioni i poveri “assoluti”, ovviamente secondo standard europei, e a 95 milioni (il 22% della popolazione) il numero di quanti sono a rischio di esclusione e hanno un gap economico da recuperare subito.
Laddove l’aiuto pubblico non è stato possibile, o si è scelto di non attivarlo, le conseguenze sono state disastrose in termini di perdite e disuguaglianze: oggi la ristretta cerchia dell’1% di abitanti detiene il 45,6% della ricchezza in America Latina, il 45,9% in Russia, il 44,5% nel Medio Oriente. Percentuali che si sono impennate in coincidenza della pandemia e sono superiori - stando ai calcoli del think-tank di Piketty - perfino a quelle degli Stati Uniti (35,3%), della Cina (30%) e dell’Europa che è ferma al 25,5% grazie al contributo dei Paesi scandinavi. «Il mondo, guardando all’andamento dell’indice Gini (che misura il livello delle disparità) è in media disuguale quanto il Sudafrica, che è uno dei Paesi più disuguali del mondo», commenta sul suo blog Branko Milanovic.
Le quote indicate si riferiscono alle disuguaglianze in termini di ricchezza, calcolate tenendo conto del reddito delle famiglie nonché eventuali proprietà, case, terreni, titoli. Altrettanto stridenti sono le disuguaglianze di solo reddito. In media, secondo i calcoli di Piketty, una persona appartenente al 10% più benestante del pianeta guadagna 87.200 euro l’anno, mentre una che ricade nel 50% meno abbiente non supera i 2800.
Una via d’uscita sarebbe la mobilità sia fra i Paesi che all’interno di essi, cioè la possibilità di passare facilmente da una classe all’altra. Invece il mondo va in direzione opposta per tutti e due i casi. Mentre sono evidenti i problemi per lo spostamento di capacità di guadagno fra aree, anche all’interno dei Paesi ricchi è arrugginito l’ascensore sociale. Nell’area Ocse, se negli anni ’80 il reddito disponibile del 10% più ricco era in media 7 volte quello del 10% più povero, era già salito negli anni 2000 già a 9 a 1 e con la pandemia ha sfondato il tetto del 10 a 1.
L’aumento delle disuguaglianze è una pessima notizia per la crescita economica. Meno ricchezza diffusa significa meno tasse che uno stato incassa, meno produttività, meno Pil. Come conferma il Fondo monetario «i periodi più lunghi di crescita sono associati decisamente a maggiore uguaglianza nella distribuzione del reddito». Riprende Boitani: «Secondo la Hans Böckler Stiftung, gruppo di ricerca del sindacato tedesco, in Gran Bretagna tra il 1990 e il 2010, la crescita avrebbe potuto essere dell’8,6% più alta se non ci fosse stato l’aumento delle disuguaglianze. E sarebbe stata migliore per il 6,6% in Italia, il 6% negli Usa, il 5,6% in Germania».
Le disuguaglianze non sono neanche una buona notizia per la coesione sociale, perché i super-ricchi tendono a vedere i loro destini come separati dagli altri e il welfare come un peso che grava sulle loro tasse senza che ne abbiano bisogno. «Vivono in un mondo loro - dice Boitani - in cui la vita dura di più, si mangia meglio, i rischi sanitari sono coperti da costose polizze che permettono le migliori cure. Negli Usa, se la tua famiglia fa parte del top 1% dei redditieri hai una probabilità 77 volte superiore di entrare in una buona università privata rispetto a un tuo coetaneo la cui famiglia rientra nel 20% più povero». Ciò permette ai figli dei ricchi di acquisire le conoscenze (sia nel senso di sapere che nel senso di network) utili a rimanere nell’area del privilegio.
Non è facile intervenire su un problema così vasto. Si potrebbe andare per settori, magari cominciando dall’aspetto oggi sotto i riflettori, le iniquità nella distribuzione dei vaccini. Massimo Florio, economista della Statale di Milano, ha presentato un progetto su richiesta del Parlamento di Strasburgo, per un’infrastruttura sanitaria europea che gestisca tutte le fasi, dalla ricerca alla commercializzazione, di farmaci e vaccini: «Collaborando con le aziende private - ci spiega - sarebbe in grado di superare le strozzature derivanti dalle rigidità brevettuali». Potrebbe essere un primo passo.