Politica
marzo, 2022

Draghito’s Way, la fase tre di Mario Draghi. Che ora prova a rilanciarsi

All’angolo nei rapporti di forza europei, alle prese con le conseguenze economiche del conflitto, logorato da una maggioranza impantanata nelle tattiche elettorali, il capo del governo prova a cambiare marcia. Nuovo ingrediente, l’unica emergenza non prevista: la guerra

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L’effetto è quello straniante di un film durato un minuto di più, sfuggito non si sa come al destino che hanno tutti i film e le cose in genere: il copione della propria fine. Come un Al Pacino che nel finale di Carlito’s Way invece di restare a terra si rialzi dal binario sul quale l’ha appena ammazzato Benny Blanco, per uscire dalla stazione e andare non ai Caraibi, ma magari a dirigere una filiale di banca, così Mario Draghi, uscito sconfitto dalla corsa per il Quirinale, si ritrova non dimissionario, pronto a fare con le mani e con gli occhi «ciao ciao» - come il carattere dell’uomo e il verso delle cose avrebbero lasciato supporre. Ma presidente del Consiglio restituito a un ruolo nuovo: premier con l’elmetto, nella prima guerra che si combatte in Europa dopo il 1945 (con l’eccezione della ex-Jugoslavia). E ancora: ex banchiere centrale a disagio non tanto per l’armamentario bellico, quanto per un ruolo dell’Italia improvvisamente marginale - figurarsi lui, abituato a stare al centro della scena - rispetto al punto di fuoco di una diplomazia europea di nuovo dominata dall’asse franco-tedesco; e in una crisi che peraltro minaccia di durare a lungo, come gli ha detto a Palazzo Chigi il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, al quale Draghi martedì ha chiesto non a caso di essere coinvolto di più (per un viaggio a Washington si parla dell’11 maggio).

 

Entrato in campo come salvatore della patria solo tredici mesi fa, il 13 febbraio 2021, Supermario si era tarato per andare al Quirinale nel gennaio 2022, e quindi per chiudere entro quel tempo le due emergenze sulle quali s’erano fondate la sua chiamata e il suo governo: per l’una, il Covid, la conclusione in effetti è attesa il 31 marzo, col generale Francesco Paolo Figliuolo pronto a «passare la mano»; per quel che riguarda il piano di ripresa e resilienza, valgono ancora le parole pronunciate nella mitologica conferenza stampa di Natale, quella in cui Draghi si candidò a cambiare ruolo: «Poste le basi, l’Italia va avanti indipendentemente da me».

 

Ecco però invece il film non è finito e l’emergenza è tornata sotto altre spoglie. Rieletto Sergio Mattarella al Colle, scoppiato il conflitto in Ucraina invasa dalla Russia, adesso Mario Draghi si ritrova alla guida del governo in un Paese che, come ha detto l’altro giorno in conferenza stampa dopo il vertice informale di Versailles, è «non ancora in economia di guerra», ma che a quell’economia «deve prepararsi», e dunque appronta misure per ridurre il prezzo di diesel e benzina e lavora a «riorientare le fonti di approvvigionamento», in un orizzonte dove distretti industriali si bloccano per mancanza di materie prime, il prezzo del grano raddoppia, i comuni spengono le luci per risparmiare, nei supermercati mettono un tetto al numero di bottiglie di olio di girasole, la parola «razionamento» non sta più solo nei libri di scuola. Un orizzonte dove quindi anche il Pnrr magnifico e progressivo non basta più: «È importantissimo continuare a svolgere quell’agenda», ha detto Draghi a Versailles, «ma oltre a questo è necessaria una risposta europea», in termini di politiche di bilancio e rivisitazione delle regole. Una nuova stagione di Europa forte. Dalle politiche espansive all’esercito comune.

 

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Proprio questo elemento - una Europa forte - potrebbe diventare, se Draghi riuscirà a suscitarla e soprattutto a intestarsela, la chiave per un possibile rilancio, che il premier ha cominciato a ritessere attraverso il fin qui non percorso asse del Mediterraneo, con il vertice di venerdì a Roma insieme allo spagnolo Pedro Sanchez, al portoghese Antonio Costa e al greco Kyriakos Mitsotakis. Un ruolo, il suo, tutto da ricostruire dopo settimane di visibile incertezza, nelle quali forse per la prima volta dacché è a Palazzo Chigi, Draghi ha mostrato il limite di essere un banchiere centrale, un uomo dell’economia e non della geopolitica, cittadino di un mondo globalizzato, firma di una moneta unica - l’euro - che significa l’opposto della difesa dei confini, dei nazionalismi, delle aggressioni militari.

 

Un disagio evidente all’inizio del conflitto, quando Draghi ha toccato il suo punto di maggior debolezza, interna ed esterna. Con i partiti pronti, dopo le vicende quirinalizie, a consumarlo come hanno fatto con i premier tecnici (vedi alla voce Mario Monti). E con una serie di sue azioni non propriamente scintillanti sul fronte delle relazioni internazionali: l’annuncio di un tardivo e poi non realizzato viaggio a Mosca per un colloquio con Vladimir Putin, quando ormai gli americani erano già sicuri dell’invasione; una posizione inizialmente esitante riguardo alle sanzioni da imporre a Mosca (comprese le oscillazioni sul bando dal circuito bancario Swift); un primo discorso alle Camere nel quale pure il leader dem Enrico Letta l’ha sorpassato sia nel predicare sanzioni senza se e senza ma sia nella durezza dell’atteggiamento verso Putin.

 

Atteggiamenti poi modificati, quelli di Draghi, ma che sul momento hanno fatto da sostrato all’incidente diplomatico con Volodymyr Zelensky («non è stato possibile parlarci», ha raccontato in Aula Draghi il 25 febbraio, a mostrare la propria preoccupazione; «la prossima volta cercherò di spostare il programma della guerra», ha risposto polemico il presidente ucraino), alle critiche del ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba, agli attacchi come quello del politologo statunitense Ian Bremmer («Draghi dovrebbe limitarsi a riformare il governo italiano, perché la crisi russa è un disastro per la sua reputazione»), per poi arrivare come, diciamo, apoteosi la settimana scorsa all’esclusione dell’Italia dal vertice a quattro con il presidente americano Joe Biden, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il premier inglese Boris Johnson ed il francese Emmanuel Macron, per la quale al di là delle battute e delle spiegazioni, Draghi ha masticato amaro.  

 

Sul fronte interno, pur restituito a una sua indispensabilità come capo dell’esecutivo, Draghi continua ad aver di fronte un Parlamento che va per conto proprio e dove - nel peraltro sempre più magmatico dissolversi del partito numericamente più vasto, i Cinque stelle - si agitano guerricciole come quella inscenata sulla riforma del catasto, che ha portato il premier a telefonare nientemeno che all’azzurro Maurizio Gasparri: un confronto, quello tra i due, che a immaginarselo rappresenta forse il miglior simbolo di quanto si tratti di una fase inedita.

 

È proprio da Forza Italia, sin qui affidabile alleato di governo, quasi il più draghiano di tutti, che arrivano infatti le più significative bordate a una stabilità che alla fine nessuno pensa di mettere davvero in discussione, specie in un momento così. Il partito di Berlusconi ha fatto fronte comune con la Lega per i due strappi sin qui più significativi (l’emendamento sul contante e quello sul catasto), e si appresta a fare altrettanto su codice degli appalti e ddl concorrenza: è la prospettiva delle elezioni ormai alle porte, che impone la gara tra alleati e la ricerca di un nuovo riequilibro del centrodestra andato in frantumi per il Quirinale. Un orizzonte nel quale Forza Italia ha necessità di far concorrenza a Fratelli d’Italia, assai più che all’imbambolata Lega di Matteo Salvini, in vista di un voto che altrimenti rischia seriamente di spazzarla via. Gli attacchi a Draghi, del resto, pare siano redditizi sul fronte elettorale: così almeno già dicono i sondaggi prontamente consultati dal vicepresidente e coordinatore azzurro Antonio Tajani, che ufficialmente dice di voler correggere un orientamento presuntamente troppo «sbilanciato a sinistra» dell’esecutivo. E tempo di recupero c’è, visto che per il momento nessuno immagina una fine anticipata della legislatura, ma nemmeno una caduta del governo prima della fine dell’anno.

 

Sono ormai alle porte anche le amministrative che dovrebbero cadere a giugno, subito dopo la fine delle scuole. Se il voto dovesse confermare gli attuali equilibri con Draghi al centro della scacchiera, è possibile che l’ex presidente della Bce torni persino a giocarsi la partita per la conquista del Quirinale, con esiti magari stavolta meno infausti. Draghito’s Way, vai a sapere a questo punto. 

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