Inchiesta
I soldi ci sono (oltre 190 miliardi di euro), ma non si riescono a spendere e il tempo passa e scadrà fra due anni e mezzo. L’esecutivo cambia abito alla struttura del Piano, ma il suo destino dipende dalla clemenza europea
di Carlo Tecce
La zuffa più plateale nel governo s’è tenuta per le nomine di Stato, una vera sbornia di potere, peraltro a rilascio immediato, adrenalina in purezza. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il meglio noto “Pnrr”, invece annoia, respinge, confonde. E spaventa. Il «faccio un giro di telefonate, e vi dico», per citare una scenetta ben riuscita di Roberto Benigni, dice che il “Pnrr” è l’unico (e vero) pericolo di un governo con una maggioranza assai larga e una opposizione assai smunta. La profezia più fosca è che il gruppo di Giorgia Meloni vacillerà fortemente nel prossimo semestre. Per chiosare: non sarà semplice uscirne integri. La profezia più secca, e nessuno ha il coraggio di ribattere, è che l’attuale versione del Pnrr non sarà completata mai entro il 2026. Due anni e mezzo. Improbabile (è per gli ottimisti). I ministri più accorti, per esempio Giancarlo Giorgetti (Tesoro), lo sanno bene. I ministri più coinvolti, anzi il ministro più coinvolto, Raffaele Fitto (Affari Europei), ne è incautamente travolto. La presidente Meloni è tormentata.
Con i suoi 191,5 miliardi di euro di fondi europei, di cui 69 in sovvenzioni e 122,5 in prestiti, il Pnrr è una questione che appare e scompare, è carsica, scomoda per i retroscena pilotati, inadatta agli agguati mediatici che avversari di partito o alleati di governo praticano con sadica abitudine. In principio il difetto era la struttura «troppo ramificata» di comando e controllo che il governo di Mario Draghi impostò con il Tesoro (cabina di regia, segreteria tecnica, agenzia per la coesione); e allora il ministro Fitto ha avocato a sé la messe di dirigenti, funzionari, esperti, centinaia di soldati e qualche generale schierati alla rinfusa. Se il corso del fiume è tortuoso, e il fiume in questa circostanza è la pubblica amministrazione, argomenta un fine giurista, è inutile riversare più acqua o ampliarne la portata. Non si giunge né prima né meglio a destinazione. Il trasloco di competenze a Palazzo Chigi, per soddisfare quel bisogno di sorveglianza che è una prerogativa di Meloni e dei suoi collaboratori, ha isolato la pubblica amministrazione più antica e da sempre più influente. Quella del ministero del Tesoro. Fitto non condivide molto.
L’andirivieni non è bastato. Il comunicato del 30 dicembre 2022 è ancora lì sospeso, in quel cinico luogo che è l’archivio digitale, col governo che informa di aver assolto i suoi doveri per ottenere dalla Commissione Europea la terza rata di 21 miliardi (tolto l’anticipo, 19 abbondanti). I burocrati di Bruxelles hanno rinviato la risposta a fine aprile per non rispondere male e al solito l’Italia ha avviato la sua disperata trattativa. Alla ricerca della “flessibilità”. Che poi, ci risiamo, i soldi non mancano. La condanna è, avrete capito, spenderli. I due conti correnti intestati al Pnrr hanno ricevuto già bonifici per 67 miliardi, però al momento i «soggetti attuatori» - pubblici e privati - ne hanno utilizzati un terzo, circa un terzo.
Lo studio del Forum Ambrosetti va oltre: «Soltanto il 6 per cento dei finanziamenti è stato speso e l’1 per cento dei progetti è stato completato. Il 65 per cento dei progetti passa dai Comuni e il 60 per cento di questi dai Comuni con meno di 5.000 abitanti, con notevoli difficoltà nella gestione dei progetti stessi. Ad esclusione della missione 3, “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” (con un rapporto tra spesa sostenuta e totale delle risorse del 16,4 per cento), tutte le altre si attestano a un livello di attuazione della spesa al di sotto del 6 per cento».
Il pragmatico Antonio Decaro, sindaco di Bari nonché presidente di Anci (associazione dei comuni italiani), firma appelli e scrive lettere al governo per sottrarre i suoi colleghi a responsabilità altrui (romane) e anche per dare la corretta dimensione del caso. Ai municipi spetta il 19 per cento dei 191,5 miliardi di euro, grandi, medie e soprattutto piccole opere. Certo, le dotazioni economiche sono straordinarie. Le lacune molto più ordinarie. Alcuni uffici comunali ci mettono 7 mesi per iscriversi al registro del ministero, cioè alla piattaforma Regis. Ingegneri, architetti e professionisti a vario titolo neanche partecipano ai bandi per impieghi a tempo determinato di un tempo che sta per scadere, ricordiamo, il 31 dicembre 2026. La liquidità di cassa dei paesi con meno di 5.000 abitanti, a fronte di acconti statali del 10 per cento, non permette di saldare le fatture alle imprese e però senza le quietanze di pagamento, è il paradosso, non si possono chiedere i rimborsi. Per l’esattezza: pure gli acconti arrivano in ritardo. E succede quello che Decaro ha spiegato ai ministri: «Vi segnalo il mancato rispetto dei tempi per i pagamenti ai soggetti attuatori fin dalle anticipazioni iniziali che, in base alla circolare della Ragioneria Generale dello Stato del 26 luglio 2022, non dovrebbe essere superiore a 7 giorni dall’inserimento dei dati nel sistema informativo. A tal riguardo si segnala il necessario aumento al 30 per cento della percentuale dell’anticipazione dovuta ai soggetti attuatori, così da allinearla a quanto di norma, in base al codice dei contratti, i Comuni devono alle imprese». Nel governo-sartoria, non temete, le toppe sono pronte. Per ingegneri e architetti, si creano graduatorie speciali. Per la piattaforma Regis, si accettano metodi antichi (la carta!). Per gli anticipi, sereni, per una volta che il denaro è in eccesso.
La rincorsa sfianca. La terza rata ancora in bilico si sovrappone alla revisione del Pnrr per l’aggiunta di un capitolo energetico che sblocca altri 2,7 miliardi di euro, una sorta di donazione, e infine i 16 miliardi della quarta rata. Si avanza sempre con il peso di 20 miliardi di euro assegnati al triennio 2020/22 che il governo Draghi ha trasferito sul triennio 2023/26. La relazione di marzo della Corte dei Conti, che monitora costantemente il Pnrr, dipinge con i colori giusti il tetro orizzonte che attende il governo Meloni: «Il recupero nella tendenza di spesa avrà luogo a partire dal 2023, esercizio nel quale è prevista un’accelerazione - rispetto al quadro iniziale - di oltre 5 miliardi; al termine dell’anno in corso, nonostante il recupero, il livello della spesa cumulata dovrebbe rimanere inferiore di quasi 15 miliardi rispetto al quadro finanziario iniziale. Nel successivo biennio 2024-2025 è poi stimato il picco di spesa, con valori annuali che supereranno i 45 miliardi». Vale la pena soffermarsi: più di 45 miliardi di euro, più di 90 miliardi nel biennio da usare, non stanziare e basta. Aspettando di conoscere la palingenesi, il contraccolpo sui conti pubblici è abbastanza definito: «L’effetto della spesa del Pnrr sull’indebitamento netto è pari a 0,3 e 1 punti percentuale di Prodotto Interno Lordo nel 2022 e 2023. L’impatto cresce progressivamente e diviene maggiormente intenso nell’ultimo triennio 2024-2026 (in via cumulata 4,3 punti percentuali di prodotto)».
Ancora la Corte dei Conti, in una ricognizione che include altre risorse, seppur con un piglio fiducioso, inquadra la situazione: «Al 13 febbraio 2023, le unità progettuali censite nel sistema si attestavano a circa 134 mila ed erano relative a 148 delle 285 misure che compongono il Pnrr (52 per cento del totale). A tali iniziative si associano costi ammessi a carico del Piano per oltre 93 miliardi; a ciò devono aggiungersi ulteriori 25 miliardi di risorse integrative, prime fra tutte quelle dei programmi del Piano per gli investimenti complementari che cofinanziano investimenti del Pnnr. (…) L’accelerazione rispetto al cronoprogramma, che prevedeva nel triennio 2020-2022 un livello di spesa sostenuta di 20,4 miliardi, è dovuta sostanzialmente alla misura dei crediti d'imposta del piano Transizione 4.0 relativi ai beni strumentali innovativi e alle attività di formazione, nonché all’intervento di rafforzamento dell’Ecobonus-Sismabonus; in entrambi i casi si è registrato un livello di spesa molto più elevato di quanto previsto. Al netto di tali misure, il livello di attuazione finanziaria scende al 6 per cento (come ha evidenziato il Forum Ambrosetti, ndr)».
Annotazione divertente: l’edilizia spinta di Conte ha salvato l’Italia! Qui di divertente, però, non c’è molto. Il Pnrr è una iniezione di denaro che capita ogni secolo e non capita dopo belle avventure. La terza rata o la revisione del piano non sono limiti invalicabili. La Commissione Europea, espressione di una coalizione di centrosinistra, a un anno dal voto, deve essere conciliante col governo di centrodestra Meloni. E se non lo fosse, il governo prepari il paracadute.