Politica
17 luglio, 2025Il governo non trova la quadra sullo ius scholae. Mentre l’opposizione non è unita dallo ius soli. Così la revisione delle norme del 1992 slitta un’altra volta. Come da tradizione parlamentare
Per come si è ingarbugliata la matassa, molto probabilmente sarà solo un tema elettorale delle prossime Politiche, saltando a piè pari l’ultimo tratto di legislatura. Dopo l’allineamento Giorgia Meloni-Antonio Tajani sulla «non priorità» dello ius scholae, appare particolarmente difficile che una nuova legge sulla cittadinanza possa essere approvata da questo Parlamento.
Poi, prevedibilmente, se non l’intero «campo progressista», almeno il Pd – in compagnia di Avs e +Europa – rilancerà il progetto nella versione più radicale, quella dello ius soli: si diventa italiani con la nascita sul territorio della Repubblica. I migranti residenti in Italia cominciano ad avere un peso elettorale da non sottovalutare, costituendo quasi il nove per cento della popolazione, con una concentrazione nel Centro-Nord. Di rimando, l’insistenza del centrosinistra tornerà utile alla Lega di Matteo Salvini (e di Roberto Vannacci) per accreditarsi, davanti agli elettori, come l’interprete più inflessibile di una presunta «italianità» minacciata dalle ondate migratorie.
È lo scenario che comincia ad aprirsi, quando mancano poco più di due anni alla scadenza naturale della legislatura. Oggetto dello scontro: la revisione della vecchia legge del 1992, lo ius sanguinis, che riconosce la cittadinanza, al momento della nascita, solo ai figli di genitori che siano cittadini, prevedendo per chi nasce da genitori immigrati la possibilità di ottenerla al compimento della maggiore età, dopo avere vissuto legalmente e senza interruzione in Italia. Se la nascita è avvenuta all’estero (si tratta qui di extracomunitari) per la cittadinanza occorre avere risieduto legalmente almeno dieci anni.
Ed è quest’ultima la norma sulla quale interveniva uno dei cinque referendum dello scorso giugno, senza ottenere il quorum come gli altri quattro quesiti, ma con un effetto boomerang per i promotori particolarmente devastante perché ha rafforzato le posizioni di Lega e Fratelli d’Italia. I due partiti fanno leva sull’argomento che gli italiani avrebbero dimostrato di non essere favorevoli a un cambiamento, anche perché, oltre al mancato raggiungimento del quorum, i no all’abrogazione hanno raggiunto il 35 per cento. Insomma, una doppia sconfitta che ha contribuito a indebolire anche il tentativo di Tajani.
Conseguenza: la situazione non è cambiata in nulla, anzi è anche politicamente peggiorata per i fautori della nuova cittadinanza rispetto all’estate di un anno fa, quando Forza Italia propose lo ius scholae, il centrosinistra offrì subito la disponibilità a varare quello schema di riforma, poi la Lega si pose di traverso trovando una sponda in Fratelli d’Italia e proprio nella premier. Tutto già nell’agosto 2024 si concluse con un rinvio da parte del partito di Tajani per non aprire un solco nella maggioranza. Esattamente come è avvenuto nelle ultime settimane.
Con questo passo dell’oca addirittura si torna indietro di quasi otto anni, quando, negli ultimi giorni del 2017, l’allora premier Paolo Gentiloni preferì anche lui il rinvio, limitandosi a definire la riforma della cittadinanza «un obbligo per la prossima legislatura», dopo avere preso atto che il suo governo non era riuscito a condurla in porto.
Per sconfiggere l’ostruzionismo parlamentare della Lega contro un provvedimento volto a introdurre una forma temperata di ius soli (si richiedeva anche il compimento di un ciclo scolastico), il governo a guida Pd – che racchiudeva anche la componente moderata di Angelino Alfano – avrebbe potuto porre la fiducia nel passaggio più impegnativo davanti al muro di emendamenti, nell’aula del Senato dopo il sì della Camera (conquistato con Matteo Renzi a Palazzo Chigi), ma evitò di farlo per non acuire lo scontro politico-parlamentare con chi addirittura denunciò «l’africanizzazione dell’Italia», evocando anche il «suicidio etnico» del Paese, come disse un deputato salviniano.
Con le elezioni politiche alle porte, si temeva il rischio di regalare voti alla destra, considerando che i sondaggi già indicavano un netto calo di consensi del Pd. Si preferì accantonare il provvedimento. Poi, le elezioni del 2018 condussero ai due governi di Giuseppe Conte, di cui il primo con la presenza di Salvini e dei suoi ministri… Ma il tema della cittadinanza non ha mai entusiasmato più di tanto il Movimento fondato da Beppe Grillo (l’ex comico, alla fine, definì il provvedimento della precedente legislatura «un pastrocchio invotabile»). E comunque è stato un veto sempre della Lega a impedire che la riforma fosse poi inserita nel programma del governo di Mario Draghi, quando fu riproposta sia pure cautamente dal Pd.
Oggi, il quadro è ancora più complicato. In teoria, solo un’iniziativa parlamentare trasversale tra Forza Italia e le opposizioni, non impegnando direttamente il governo, potrebbe rimettere in movimento la situazione, che al momento resta bloccata. La stessa posizione dei berlusconiani – la cittadinanza sempre dopo dieci anni e avendo completato almeno un ciclo di studi – è lontana dalla riforma che vorrebbe l’opposizione, compresi i riformisti del Pd e i Cinque Stelle che vedrebbero bene lo ius scholae, ma con tempi più brevi per ottenere la cittadinanza.
Occorre, tuttavia, lavorare politicamente proprio sulla “via scolastica”, che non solo appare realisticamente l’unico approdo in materia di riforma della cittadinanza, ma potrebbe anche facilitare – ed è questa la cosa più importante – un’integrazione non fittizia. Un’integrazione che passi attraverso una condivisione almeno dei valori di base della nostra comunità. Dovrebbe essere nell’interesse dell’intera politica italiana.
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