Il paragone è forse un po’ scontato ma quasi inevitabile: è giovane e carismatico, come Che Guevara. È medico, come il Che. E come il Che porta la barba e un cappello che è diventato uno dei simboli del movimento da lui guidato, il Pashtun Tahafuz Movement (Ptm). Si chiama Manzoor Ahmad Pashteen, il ventiseienne che da più di un anno ormai porta in piazza folle oceaniche e che agli occhi del governo pakistano e dell’esercito è diventato più pericoloso di qualunque terrorista nonostante, al contrario del Che, non creda alla violenza né alla lotta armata.

La storia di Manzoor e dei suoi comincia molti anni fa, all’epoca della “guerra al terrorismo” lanciata dall’esercito pakistano in Waziristan, nelle regioni tribali e più in generale ai confini con l’Afghanistan. «Noi Pashtun siamo stati sacrificati per anni sull’altare dei cosiddetti interessi strategici a causa dei gruppi terroristici autorizzati a operare sulla nostra terra. I nostri villaggi sono stati bombardati e la nostra gente è stata costretta ad abbandonare le proprie case in nome delle operazioni antiterrorismo. Migliaia di giovani sono stati illegalmente detenuti o sono semplicemente scomparsi. Molti dei nostri leader tribali, molti religiosi, leader politici e studenteschi sono stati semplicemente assassinati», sostiene Manzoor. Che ha fondato il movimento ai tempi dell’università, assieme a un gruppo di amici, dopo aver visto la propria casa ridotta a un cumulo di macerie, gli anziani di tribù e villaggi uccisi a sangue freddo e venduti poi agli americani come “terroristi”, le donne stuprate e umiliate, i civili torturati e picchiati perché non raccontassero cosa succedeva davvero. «L’esercito pakistano divideva gli stessi accampamenti e gli stessi alloggi con i talebani. Nessuno di loro è mai stato toccato, non ne hanno mai ucciso uno. I morti erano quasi sempre civili, gente comune».

Ai tempi, Manzoor è stato arrestato un paio di volte, chiamato dagli agenti dell’Isi, minacciato. Alla sua famiglia è stato detto che «soffriva di turbe mentali». Gli è stato ordinato da vari generali di smettere le sue proteste perché «il morale delle truppe ne risente, piantala o te ne pentirai». «Ma io gli ho risposto che non mi importava di morire», racconta Pashteen. «Potete ammazzarmi, torturarmi, ma continuerò fino all’ultimo respiro a denunciare ciò che state facendo alla mia gente. Smettetela di umiliare le nostre donne, di ammazzare innocenti, di tagliare la gola agli anziani, di prendere le persone e farle sparire. Smettetela di ospitare i talebani nei vostri accampamenti».

Una manifestazione del Pashtun Protection Movement

Molti abitanti delle aree interessate sono stati costretti ad emigrare altrove per scampare alla guerra e agli abusi di militari e terroristi, ma non è servito a molto. Anche in altre regioni del loro stesso paese, i Pashtun sono stati e sono bersaglio di continue discriminazioni e umiliazioni.

Gli abitanti del Waziristan sono stati costretti a usare le cosiddette carte d’identità Watan, che discriminano il portatore in base all’appartenenza etnica e regionale. Sono carte d’identità speciali, che devono essere approvate e rilasciate dalle agenzie di intelligence e che rendono i portatori soggetti ad abusi e discriminazioni in nome della sicurezza nazionale. Non solo. Nella regione è stata usata la stessa ricetta sperimentata da anni in Belucistan. La gente, oppositori politici, semplici cittadini che protestavano, attivisti o intellettuali, ha cominciato a scomparire o a essere uccisa in pretestuosi scontri a fuoco con la polizia pur non avendo mai posseduto un’arma. «L’intelligence e l’esercito pakistano usano questa tattica da anni. Se vogliono eliminare qualcuno che sta diventando particolarmente scomodo cercano di montare contro di lui false accuse, ne fanno un terrorista e lo ammazzano. Dopodiché piazzano un’arma e altre cosiddette “prove” e lo propagandano come l’ennesimo successo della lotta al terrorismo», prosegue Manzoor. Un anno fa è toccato a Naqeebullah Mehsud, un aspirante fotomodello con vaghe aspirazioni da attivista per i diritti umani. Naqeebullah è stato ucciso dalla polizia in uno scontro a fuoco costruito ad arte: la cosa più vicina a una pistola che Naqeebullah possedeva era difatti un phon per capelli.

La morte di Naqeebullah è stata la classica goccia: per tre giorni centinaia di persone, che sono poi diventate migliaia, hanno protestato in piazza. E il movimento universitario di Manzoor è diventato il Pashtun Tahafuz Movement, il movimento per la protezione dei Pashtun.

Lungo questo anno, nonostante il governo continui a negare che il problema esista, circa quattromila persone “scomparse” sono tornate a casa: ma sono ancora migliaia, circa ottomila, quelli di cui non si ha più notizia. Così come sono migliaia le vittime delle leggi draconiane che governano le aree tribali e quelle di confine, leggi che il Ptm chiede di abrogare o, almeno, di rivedere perché violano i fondamentali diritti umani e civili della persona. Una per tutte, la cosiddetta “legge della responsabilità collettiva”, che viene sempre adoperata dalle forze dell’ordine: se qualcuno commette un crimine, a essere punito è l’intero villaggio o la tribù e la famiglia di appartenenza. Islamabad, dicono, sta giocando col fuoco: fa alcune concessioni ma continua a censurare giornali e televisioni per quanto riguarda le proteste pashtun, arresta i leader del Ptm, gli impedisce di lasciare le aree tribali e addirittura li mette sulla no-fly list.

«Vogliamo che il mondo si accorga della nostra situazione, che il nostro governo smetta di ammazzare la nostra gente in falsi scontri a fuoco, che le persone scomparse ritornino a casa o, se hanno commesso qualche crimine, che vengano portate in Tribunale e giudicate secondo la legge. Vogliamo che l’esercito smetta di torturare e picchiare civili durante le perquisizioni per cercare cosiddetti terroristi, che tolgano le mine dalle nostre terre. Vogliamo una Commissione che investighi sugli omicidi extragiudiziali commessi dallo Stato, e che ci sia permesso di denunciare i colpevoli».

Islamabad, come sempre, ha risposto a suo modo. Ha cercato di proibire le manifestazioni e ha arrestato, picchiato, torturato o addirittura ucciso diversi membri del Ptm. L’ultimo a morire, lo scorso 2 febbraio, è stato Arman Loni, un attivista per i diritti umani: «Lo Stato ha ammazzato Arman, e a noi non è stato nemmeno permesso di inoltrare una regolare denuncia contro il suo assassino, che è un ex-ufficiale dell’esercito pakistano. E hanno perfino cercato di impedirci di andare ai funerali, la polizia ha anche sparato contro la mia macchina». E nei giorni successivi alla morte di Loni, l’esercito e la polizia si sono accaniti in modo sempre più violento sui manifestanti.

Il 5 febbraio, davanti al National Press Club di Islamabad sono stati arrestati quindici dimostranti di cui non si ha più notizia. E qualche giorno dopo un paio di giornalisti che avevano osato scrivere del Ptm sono stati prelevati per qualche ora, uno addirittura in manette. «Lo stesso giorno era in corso una manifestazione, in cui parlavano anche terroristi dichiarati, in solidarietà con il Kashmir indiano inneggiando alla violenza. La polizia non li ha disturbati, ma ha preso e torturato e picchiato i dimostranti del Ptm che chiedevano pacificamente i diritti umani e civili che lo Stato dovrebbe garantire a ogni cittadino», continua Manzoor. Ma criticare l’esercito, in Pakistan, è un esercizio pericoloso, specialmente quando, come fanno Manzoor e i suoi, si accusa lo Stato di fare il doppio gioco nella cosiddetta lotta al terrorismo: le stesse accuse, per inciso, che da anni l’Occidente fa ad Islamabad e ai suoi generali.

Così, da parte di quello stesso Stato da cui dovrebbero ottenere giustizia, gli appartenenti al Ptm vengono accusati di essere “agenti di potenze straniere”: accuse adoperate ormai da tempo contro gli oppositori politici e contro chiunque si azzardi a criticare l’esercito e i servizi segreti. Ma Manzoor, sull’argomento ha le idee chiare: «Ci accusano di essere al soldo della Raw, l’intelligence indiana. Vorrei capire allora perché le spie della Raw, quelle catturate da Islamabad, non scompaiono né vengono torturate o ammazzate in falsi scontri a fuoco Se siamo spie della Raw, che ci garantiscano almeno lo stesso trattamento».

Il numero delle persone che scende in piazza a ogni chiamata del Ptm, nonostante la vita di ogni singolo individuo sia a rischio, smentisce da solo ogni pretestuosa accusa del governo e dell’esercito: «Ma io non ho paura, non mi uccideranno domani e nemmeno dopodomani», conclude Pashteen, «non mi uccideranno fino a che il resto del mondo terrà i riflettori puntati. Certo, non posso escludere che i talebani o qualche altro jihadi faccia il lavoro sporco al posto della polizia, ma, alla fine, non è questo l’importante. La mia vita non è importante. Possono uccidere me, ma non riusciranno mai ad uccidere il movimento. Continueremo a lottare per le nostre idee fino all’ultimo uomo e all’ultimo respiro». C’è stato in passato un altro movimento di queste dimensioni in Pakistan, un movimento pacifico per i diritti umani e civili lanciato dagli abitanti dell’allora East Pakistan che erano vittime dello stesso genere di abusi a cui sono sottoposti i Pashtun. È stato represso con la forza e ha portato a una guerra civile e, nel 1971, alla nascita del Bangladesh. Forse a Islamabad converrebbe riprendere in mano i libri di storia.

Francesca Marino