Da qualche tempo i leader europei fanno ressa nell’anticamera di Vladimir Putin per avere udienza, strappargli un selfie e una dichiarazione di appoggio. L’ultima finora è stata Marine Le Pen, che qualche giorno fa si è fotografata con lui e ha ricevuto in dono un libro russo in cui la si descrive come una nuova Giovanna D’Arco. Putin le ha dato un appoggio molto accorto: «So che lei rappresenta uno spettro di forze politiche che si sta sviluppando rapidamente in Europa».

In cambio, Le Pen ha promesso, in caso di vittoria alle presidenziali francesi, di riconoscere la Crimea come territorio russo e di dare una mano a togliere le sanzioni. Più in piccolo, Matteo Salvini visita spesso la Russia. A un livello diverso, Donald Trump ha espresso in modo plateale simpatie per Putin, ricevendone analoghe manifestazioni di feeling. Il presidente turco, intanto, si è riavvicinato alla Russia sottolineando diverse affinità tra le rispettive posizioni. Insomma, Putin è diventato a poco a poco l’icona di un atteggiamento che piace a un ampio «spettro di forze politiche» europee, dai populisti, ai sovranisti o comunque vogliamo chiamare quella zona fluida che sta più a destra e più in basso di tutto.

Il fatto è che Vladimir Putin ha elaborato negli anni una sorta di modello di democrazia alleggerita di tutto il superfluo, un’autentica putinocrazia, che in molte parti del mondo si prospetta come un’alternativa allettante alla democrazia dell’Occidente, in particolare dell’Europa, basata su libere elezioni, parlamentarismo e cultura dei diritti.

Oggi, per opinione diffusa (a sinistra come a destra), il nostro modello di democrazia è in affanno, come mostra il fatto che i cittadini tendono a stare alla larga dai partiti tradizionali e a sostenere formazioni anti-istituzionali anche spinte. Che bisogni ricercare modelli alternativi efficienti è una preoccupazione diffusa, e in questa ricerca la putinocrazia si affaccia come un modello possibile, i cui tratti principali piacciono molto ai leader occidentali di destra.

Anzitutto il nazionalismo: ognuno è padrone a casa sua, le ingerenze non devono essere accettate e la sovranità dei singoli stati deve essere ricostituita. Poi il tradizionalismo: la modernità è un errore, bisogna tornare alle tradizioni e alle istituzioni fondamentali, in particolare la famiglia. È cruciale in questo modello l’antieuropeismo, che per la Russia fa parte del secolare pacchetto del panslavismo: l’Europa occidentale (oggi, in particolare, l’Unione Europea) toglie potere ai singoli stati e rinuncia al concetto di madrepatria. Infine, il protezionismo commerciale e culturale. Questa dottrina, diffusa dal Cremlino e dai media russi, e da Putin stesso in una sua linea diretta televisiva, fa larga presa sulla popolazione più sprovveduta.

Se non si fa caso ad alcuni ingredienti tipicamente russi (come l’appello al cristianesimo ortodosso e la rivendicazione di un forte ruolo euroasiatico della Grande Russia), questo programma può, cambiando etichetta, sembrare senza difficoltà il manifesto del trumpismo o anche del lepenismo, soprattutto dacché questo ha attenuato l’urticante componente fascista. Agli ammiratori occidentali dai gusti semplici importa poco che, nello schema putiniano, siano ammessi ampi diritti economici (arricchitevi se potete) ma scarsi diritti politici (votate e poi basta) e che gli oppositori vengano messi in gabbia (è di pochi giorni fa il brutale rastrellamento degli oppositori che fanno capo a Aleksej Navalny) e i giornalisti avversi, semplicemente, messi a tacere. Quel che conta è la sostanza.

Diverse analisi (come l’illuminante “Dans la tête de Vladimir Poutine” di Michel Eltchaninoff, 2015) hanno rivelato che alla costruzione di questo modello Putin ha lavorato in modo assiduo e deliberato, a partire da spunti assorbiti da Aleksandr Solženicyn, con cui ebbe molti incontri prima della morte di questi. Nella ricetta di Putin, Eltchaninoff ha ripescato perfino sottili motivi filosofici: dall’idea di Leibniz (consigliere di Pietro il Grande ai primi decenni del Settecento) secondo cui la Russia ha la missione geopolitica di ponte tra Oriente e Occidente, alle allusioni a Dmitri Mendeleev, il padre della tavola periodica degli elementi, di cui Putin approfitta per sostenere l’omogeneità naturale dei russi pur nella diversità degli apporti etnici, esaltare l’«ardore in combattimento» e fare dell’omofobia una dottrina di stato, dato che l’indebolimento demografico della Russia è attribuito agli omosessuali.

A questo si associa una visione organicistica della geografia (che presso i leader occidentali si traduce in “sovranismo”, cioè rivendicazione dei confini e delle prerogative nazionali), in cui ogni parte del paese ha un ruolo per la totalità e ogni tentativo di danneggiare l’unità che ne risulta va contrastato. In questo quadro, l’Ucraina è il «granaio della Russia europea» (citazione da un discorso putiniano) e non appartiene ai «piccoli russi» ma «a tutto il paese». È chiaro che, con presupposti come questi, diventa naturale l’annessione di un paese non russo, a condizione che ci vivano minoranze (o perfino maggioranze) russe e che abbia una funzione per il mondo russo. Come è noto, dopo la Crimea, la minaccia di annessione pesa sui paesi baltici e caucasici e la presenza russa in Siria non è di certo tranquillizzante.

C’è chi in questa teoria, primitiva ma ramificata, ha visto perfino tracce di Hegel, e non è detto che prima o poi Putin non verrà trattato come un filosofo, visto che una tournure del genere riuscì perfino al ruvidissimo Stalin. Sta però di fatto che per una parte crescente dell’Occidente, dalla destra europea a quella statunitense, questa inquietante dottrina sta convertendosi in programma politico.

Raffaele Simone