Dice Eshkol Nevo di “Tre piani”, film di Nanni Moretti in concorso al Festival di Cannes, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore israeliano: «L’ho visto due volte. La prima, volevo capire se fosse fedele al mio libro. E lo è. Ci sono perfino i dialoghi del mio romanzo». E la seconda? «Si tratta pur sempre di un’opera cinematografica di un artista come Moretti ed ero curioso di vederla da spettatore. Posso dire che il film mi ha commosso. Non era scontato, visto che essendo io all’origine della storia la conoscevo bene e non ero privo di difese psicologiche. Ma non riuscivo lo stesso a trattenere le lacrime. Penso che gli spettatori proveranno grande emozione». E poi lodi a Riccardo Scamarcio, nel ruolo di Arnon, un personaggio poco simpatico (ci torneremo). In “Tre piani” si narrano tre vicende, ambientate ciascuna in un piano di un condominio e che corrispondono ad altrettanti strati della psiche, secondo Freud: l’Es, l’Io e il Super-Io.
Nevo ha cinquant’anni, è nato a Gerusalemme da genitori psicologi. Il nonno, Levi Eshkol, scomparso nel 1969, è stato primo ministro ai tempi della Guerra dei sei giorni, ma soprattutto è ricordato in Israele come un uomo mite, ironico ed estremamente empatico, anche nei confronti degli avversari e perfino dei nemici. Una caratteristica che, sebbene indirettamente, ha ereditato Nevo, a giudicare dai suoi romanzi, fra i quali “Nostalgia”, “Neuland”, “L’ultima intervista” (tutti con Neri Pozza). Ne parliamo in questo colloquio, in cui lo scrittore ci tiene a sottolineare pure l’aspetto generazionale della sua esperienza. Il nuovo Israele e la sua letteratura e politica è ormai dei cinquantenni.
Cominciamo da una domanda che unisce letteratura alla politica. Nel suo più recente libro, “L’ultima intervista” lei dimostra empatia per i coloni nei Territori, nello stesso tempo ironizza sugli attivisti del movimento per i boicottaggio d’Israele senza condannarli o odiarli. In “Vocabolario dei desideri” poi, dedica una voce bellissima alla parola “Ferita”. E allora, cosa è l’empatia?
«I miei genitori, psicologi, mi hanno fatto capire che un essere umano è prima di tutto un essere umano, l’appartenenza a una nazione, l’affiliazione politica, la fede religiosa vengono dopo. Chi arrivava a casa nostra - un arabo, un ebreo religioso, un uomo di destra, o una persona con la sindrome post traumatica causa guerra del Kippur - era trattato come un umano e basta. Oggi, da adulto e da scrittore devo andare oltre le etichette. Certo, le definizioni esistono nella realtà, ma se ti fermi a rispecchiare la realtà, non c’è motivo perché tu scriva romanzi. Essere scrittore significa portare il lettore oltre i suoi pregiudizi. E allora se riesco a suscitare nel lettore l’empatia nei confronti dei coloni ho fatto il mio mestiere. Aggiungo. Insegno scrittura. Parlando con i miei allievi constato quanto tutti nascondiamo una ferita e che tutte le ferite si assomigliano e non importa se sei un arabo o un discendente dei sopravvissuti alla Shoah».
Il trauma è trauma, non importa l’origine storica o culturale. È l’Abc della psicanalisi.
«No. È una questione di etica interiore. Che atteggiamento hai di fronte all’esperienza umana? Sei curioso o invece giudicante?».
Lei è stato allievo di Amos Oz. Oz parlava qualche volta dell’etica della letteratura. Un giorno mi disse che Céline, un collaborazionista dei nazisti, era un autore che scriveva bene, ma non era un grande scrittore.
«Con tutto il rispetto per il maestro, io parlo della mia esperienza. Una volta costruivo personaggi che mi assomigliavano. Ora invece sono più interessato ai lati oscuri dei protagonisti. L’io narrante di “L’ultima intervista” è un bugiardo e un personaggio irritante. E non ho simpatia per Arnon di “Tre piani”. L’ho visto nel film di Moretti. L’attore è eccezionale. È più simpatico del mio Arnon. Ma nonostante sia un attore eccellente e porti una complessità emotiva maggiore di quella del mio libro, non vorrei averlo per amico».
Ci spiega il miracolo della letteratura israeliana? C’è chi dice che gli ebrei sanno raccontare le storie perché lo fanno da oltre duemila anni, chi sostiene che nell’ebraismo la cosa importante sono le domande e non le risposte, e che nell’ebraismo il luogo è tempo e non geografia. Insomma fra narrazione e complessità, l’identità ebraica sarebbe strutturata proprio come i romanzi.
«Io adoro invece la letteratura italiana. E mi sento prima israeliano e poi ebreo. Ma vorrei aggiungere un altro elemento all’elenco che ha fatto: la vita in Israele è molto intensa. La violenza latente e palese, le sfide morali a partire dal fatto che esiste un altro popolo, vicino di casa con cui siamo in conflitto e su cui esercitiamo un potere, sebbene parziale. E poi, negli ultimi anni abbiamo avuto un premier in odore di corruzione e autoritario. Tutto ciò comporta una vita elettrizzante ad altissimo voltaggio. E poi ci sono gli arabi israeliani e da poco abbiamo assistito a scontri fra ebrei e arabi in alcune città. Tutto questo fa sì che non vuoi perdere tempo per cose che non sono intense. E la letteratura deve essere intensa, altrimenti non ha senso».
Abraham Yehoshua nel 1967, dopo la conquista di Gerusalemme Est, ha voluto andarsene dalla città santa per vivere nella laica Haifa. David Grossman all’epoca aveva 13 anni e oggi dice che gli israeliani, causa occupazione, non hanno il senso del limite. Lei invece è nato con l’occupazione come fatto compiuto.
«Il dibattito oggi non riguarda né l’occupazione né questioni di sinistra e destra ma semplicemente lo Stato di diritto. In questi ultimi anni mi sono impegnato in politica. L’ho fatto per difendere i valori che sono alla base dell’esistenza del nostro Stato così come sono definiti nella Dichiarazione dell’Indipendenza del 1948. Quindi: democrazia, libertà d’espressione, e giustizia indipendente dal potere politico. Quei valori erano in pericolo a causa dell’uomo che fino a poco fa è stato il primo ministro. Netanyahu è caduto perché molte persone di destra erano con noi. E io non ho fretta di tornare alla discussione precedente. Voglio solo assicurarmi che nessun primo ministro mai più possa minacciare coloro che la pensano diversamente e nessun ministro della Cultura possa togliere sussidi ad artisti critici».
Lei abita a Raanana, cittadina a venti chilometri da Tel-Aviv, dove vive pure Naphtali Bennett, il nuovo premier e capo del partito Yamina, parola che in ebraico significa “a destra”. Lo conosce personalmente?
«Siamo quasi vicini di casa. Ci separa un chilometro di strada. Ci siamo incontrati una volta, abbiamo parlato a lungo. Non siamo d’accordo su quasi niente ma ho avuto l’impressione di aver a che fare con una persona dotata di una sensibilità non comune in politica. Facciamo poi parte della stessa generazione. E come me lui è cresciuto a Haifa, città dove ebrei e arabi vivono insieme. Penso che sia stato giusto, nella situazione attuale, eleggerlo primo ministro. È un tipo di persona che rispetta gli accordi e la parola data».
La discussione oggi non sarà sull’occupazione, però in alcuni dei suoi libri lei parla della situazione nei Territori, dell’umiliazione dei palestinesi, dei traumi dei soldati.
«Intanto a Gaza non c’è occupazione ma il potere di Hamas, un’entità ostile e aggressiva. La sfida è come combattere il Male fondamentalista e estremista che ci vorrebbe vedere distrutti, senza diventare noi stessi il Male. Poi c’è la Cisgiordania. E là l’occupazione continua, sebbene parzialmente, e la situazione oggi non è la stessa che ho conosciuto io durante il mio servizio militare nei primi anni Novanta. Io stavo in mezzo alla popolazione civile. Ho inseguito i manifestanti, i bambini. Non dico che simili situazioni non esistono più, ma sono limitate. Poi, certo, da quando è stato assassinato Rabin, nel 1995, il processo di pace si è fermato, ma una soluzione la dobbiamo trovare. Sicuramente non lo si poteva fare con il premier appena caduto».
In “Nostalgia” c’è un operaio palestinese che ha le chiavi della casa che dovette lasciare nel 1948. In “L’ultima intervista” appare un profugo che ha nostalgia della Giaffa araba. Chi sono per lei gli arabi?
«Sono cresciuto a Haifa e a Gerusalemme. Fin da bambino so che ci sono persone che non sono ebree e che fanno parte del mio Paese. Poi c’è la curiosità. E c’è la volontà di far sentire una voce che normalmente non viene fatta sentire. Della Nakba (l’esodo di 700 mila palestinesi e la distruzione dei villaggi nel 1948, ndr) quasi nessuno vuol parlare. E allora l’ho fatto in “Nostalgia”. Volevo far sentire la narrazione dell’altra parte. In “Sogni perduti”, c’è un arabo che costruisce un bagno rituale per gli ebrei, poi viene arrestato come sospettato terrorista. Io vedo una ferita e da dentro questa ferita provo a scrivere».
In “Neuland”, un romanzo on the road, lei racconta fra le altre cose l’esperienza delle colonie agricole ebraiche nate in Argentina fra la fine dell’Ottocento e inizio Novecento, come alternativa al sionismo e alla Palestina. Ora, per molti ebrei Gerusalemme più che luogo è tempo dopo il tempo, il Messia. Torniamo così alla domanda: per lei, nipote di un politico laburista fra i fondatori dello Stato, cosa è il luogo?
«Sono nato e cresciuto in Israele. Non ho mai vissuto fuori. Ma è bello cambiare il punto di vista, viaggiando. E parlando di “Neuland”, la domanda: cosa sarebbe successo se… è la domanda più interessante dal punto di vista letterario ma anche da quello intimo. Dopo il militare ho fatto il viaggio…».
Un lungo viaggio iniziatico che fanno moltissimi ragazzi israeliani dopo il militare.
«L’ho fatto in America Latina. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se lo Stato degli ebrei fosse nato in America del Sud e il viaggio del dopo-militare fosse stato in Palestina. E seriamente, non avrei mai avuto un’idea simile se non fossi stato in viaggio, in movimento. Per questo è stata così difficile la vita in pandemia. Il confinamento non fa bene all’animo. La curiosità, la volontà di conoscere, l’allargamento dei confini della coscienza e dell’esperienza sono le caratteristiche più importanti per uno scrittore».
Cosa è il desiderio?
«Quattro anni fa ero coinvolto nell’adattamento di “Tre piani” per il teatro Habima di Tel Aviv. La drammaturga mi ha detto: “Ti pensavo sazio e soddisfatto del tuo status. Invece hai fame”. Le ho risposto: “Senza fame ci si arrende”. La cosa che più mi spaventa è essere senza desiderio. La parola libido è sinonimo di voglia di vivere. Ci sono stati periodi in cui l’ho persa (alla fine della terza ondata della pandemia, ad esempio) e sono stati i giorni più difficili della mia vita. Auguro a me stesso e ai miei lettori di avere sempre il desiderio».