A 40 anni dalla morte del regista tedesco esce il bel cineritratto di Annekatrin Hendel

Gli anniversari imbarazzanti sono sempre i migliori. Il 10 giugno ricorrono 40 anni dalla morte di Rainer Werner Fassbinder ma il grande regista tedesco ne visse appena 37, bruciando a velocità folle talento e contraddizioni sufficienti per un secolo. Nessuno è riuscito a girare 44 opere, tra film e serie tv, in così poco tempo. Nessuno, nemmeno tra i coetanei del Nuovo Cinema Tedesco, ha lasciato un segno più profondo nel proprio paese e nella sua capacità (o incapacità) di rappresentarsi. Sbattendoci in faccia questioni che nella nostra epoca oscena e schizzinosa sono troppo spesso semplicemente innominabili. Altro che classico insomma: quarant’anni dopo Fassbinder resta un incendiario.

Vedere (o rivedere) per credere i cinque film riproposti dalla Viggo per l’occasione, dal debutto “L’amore è più freddo della morte”, 1969, ispirato a “Frank Costello faccia d’angelo” di Melville, all’autobiografico “Le lacrime amare di Petra Von Kant” (tutto Fassbinder è sfacciatamente o segretamente autobiografico); dal primo grande successo, “La paura mangia l’anima”, ovvero “Tutti gli altri si chiamano Alì”, al capolavoro “Il matrimonio di Maria Braun”, passando per il magnifico “Effi Briest”.

Per chi poi voglia capire qualcosa in più degli intrecci tra la vita e i film di Fassbinder c’è il bel cineritratto di Annekatrin Hendel, che interrogando testimoni e compagni di strada restituisce i contorni essenziali di questo personaggio “affascinante e repellente, vulnerabile e rapace”, per dirla con la sua musa Hanna Schygulla. Un manipolatore incorreggibile e geniale, come osserva Volker Schlondorff, che sul set riproduceva “i meccanismi all’opera in ogni strato della società”. Un ribelle, un provocatore che non separava certo vita e arte, travolgendo di passaggio più di un’esistenza. Con conseguenze solo provvisorie per le sue attrici eternamente grate, Hanna Schygulla, Irm Herman, Margit Carstensen, ma talvolta fatali per i suoi amanti-attori, dal marocchino El Hedi Ben Salem, (“La paura mangia l’anima”), al macellaio Armin Meier che appariva al suo fianco nello sconvolgente episodio di “Germania in autunno”.

Salvo poi trasformare tutto lucidamente, dolorosamente in cinema. Seguendo un percorso di creazione e autodistruzione con cui, quarant’anni dopo, non abbiamo ancora smesso di fare i conti. 

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