Per una magia che noi amiamo e che lui deve aver sicuramente alimentato, Federico Fellini è ancora vivo. Eppure ci ha lasciato il 31 ottobre del 1993, tre anni dopo l’uscita del suo ultimo film, “La voce della luna”. Molti vedono in questo suo lavoro una sorta di addio, il testamento artistico e umano di un regista geniale scontento della deriva che aveva preso la società italiana, sommersa dalla volgarità imperante, dominata dalla tv e dal rumore. E riflettono sulle considerazioni del magistrato in pensione Gonella (un fantastico Paolo Villaggio) alla fine del film: «Se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire» e naturalmente le attribuiscono allo stesso regista. In effetti Fellini, uomo mite, riservato, gentile, aveva più di una volta espresso la sua preoccupazione per l’involgarimento della società. E “La voce della luna” è il film che poeticamente indica una via d’uscita a questo attentato alla dignità, alla bellezza, alla creatività dell’uomo. Non c’è che la fantasia, per vivere in una società migliore.
E in una dimensione onirica si muovono i protagonisti di questo film: Gonella, perennemente angosciato, Salvini (meraviglioso Roberto Benigni) perdutamente innamorato di una donna immaginaria, che insegue la luna, l’astro che illumina i pozzi e ne fa uscire voci e voci. Le voci che lo incoraggiano ad andare lontano, alla ricerca della donna amata che somiglia, appunto, alla luna. In questo incessante girovagare Gonella e Salvini incontrano strani tipi e a un certo punto si immergono anche in una discoteca: ed è quasi una discesa agli inferi. Solo la luna e il silenzio della notte daranno pace ai due pensosi girovaghi, viaggiatori senza mappe e senza guide. Ma in paese, la luna viene catturata... Un sogno, dunque. Una immersione nel silenzio, nell’interiorità, nella ricerca di un’armonia ormai perduta in un mondo dominato dal consumismo.
Ispirato al “Poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni e ambientato nella campagna padana: una campagna percorsa soprattutto di notte, bella nei suoi silenzi, nei suoi misteri, nelle sue voci direttamente nutrite dalla luna. Fellini paragonava questo suo film a un viaggio pieno di sorprese. «Benigni e Villaggio, questi due magnifici clowns, non hanno mai avuto battute. “La voce della luna” non aveva sceneggiatura », aveva dichiarato il regista. «Arrivavo al trucco con pezzetti di carta che avevo scarabocchiato la sera prima. Ho fatto un bel viaggio sottobraccio a Lucignolo e Pinocchio». E non è un caso se, anni dopo, Benigni si lancerà proprio nell’avventura del burattino di legno. Con Fellini, in ogni caso, l’attore riesce a dare una delle sue migliori interpretazioni: è più misurato del solito, meno istrione.
Hanno dato il David di Donatello per il miglior attore a Paolo Villaggio, molto bravo nell’insolito ruolo di ex uomo di legge che ne ha viste troppe, e non ha più fiducia se non nel silenzio, nella riflessione. Un premio è andato alle musiche di Nicola Piovani, al montaggio di Nino Baragli, alla scenografia di Dante Ferretti. Ma per “La voce della luna” un premio lo avrebbe meritato anche Roberto Benigni, ultimo poetico clown del testamento di Fellini.