Perché il timbro sull'impegnativa ha un nome diverso dal suo? "Non si preoccupi, facciamo sempre così". Ore 17, ambulatorio di psichiatria del Policlinico di Tor Vergata, la nuova struttura sorta sei anni fa nella zona sud di Roma. La visita si è appena conclusa. Ma non si è visto nessun dottore specializzato nella disciplina, nessun dottore 'strutturato' come si dice nel gergo burocratico sanitario. Davanti a noi, per capire i problemi, diagnosticare una 'depressione con stato ansioso' e prescriverci degli psicofarmaci c'è soltanto una specializzanda. Ossia un medico, laureato da poco e che sta ancora perfezionando la sua formazione. La stessa cosa si ripete un mese dopo, quando alla visita ci presentiamo con una telecamera nascosta. In pratica, tutto il percorso terapeutico del paziente viene affidato a un dottore che, secondo la legge, dovrebbe solo assistere alle visite fatte dal suo tutor, lo specialista esperto. E invece cura i pazienti da sola. Non ha a che fare con influenze di stagione, ma affronta casi delicatissimi, quelli per cui l'esperienza conta più di tutto: i malati psichiatrici. Succede in gran parte delle cliniche universitarie d'Italia. Ma la situazione dell'ospedale romano fa scuola.
L'ambulatorio di psichiatria di Tor Vergata serve un bacino sterminato che comprende tutta la zona sud di Roma, con le borgate che sorgono lungo la Casilina e giungono, oltre il raccordo, fino a Tor Bella Monaca e alle grandi zone residenziali dei Castelli romani. Milioni di persone, quartieri enormi e con alcune aree socialmente a rischio. Il Policlinico è stato inaugurato nel gennaio 2001 grazie anche ai fondi straordinari ottenuti per il Giubileo: una struttura nuovissima, grandi padiglioni di vetro e ferro all'americana, spazi ampi, punti informativi. Persino le casse del Cup, il Centro prenotazioni, sono impostate su un modello amichevole: niente sportelli separati da vetri, ma operatori alla scrivania che ti accolgono facendoti sedere comodamente. Sul sito Internet, ben documentato, si legge che il Policlinico "mira a realizzare un innovativo modello di assistenza: un ospedale umano, aperto e sicuro" che sottolinea la "centralità del malato e la sua dignità come persona". Insomma, all'apparenza una clinica universitaria perfetta. Ma anche l'emblema di una consuetudine fuori dalla legge, diventata ormai prassi legalizzata. Di un sistema che, lì come nel resto d'Italia, si regge sullo sfruttamento di laureati che ricevono 800 euro al mese per imparare, mentre invece sono di fatto obbligati a esercitare la professione.
A rimetterci è la loro dignità di giovani medici e la loro capacità di perfezionarsi: non possano essere formati da maestri, ma diventano autodidatti, dal momento che vengono messi a lavorare da soli. Tra turni, guardie e ambulatorio è difficile che abbiano il tempo di frequentare corsi e dedicarsi all'approfondimento. Possono venire impiegati senza preoccuparsi degli straordinari o delle notti, perché non hanno orari precisi: il loro compito non sarebbe quello di lavorare ma solo di apprendere. Una condizione di Cenerentole della sanità che riguarda 25 mila neolaureati in tutta Italia: medici che imparano sui propri errori. A spese dei pazienti. Una situazione paradossale soprattutto nella psichiatria, una disciplina in cui l'esperienza è determinante, commettere un errore può avere conseguenze irreparabili. Scambiare una depressione grave per un banale stato d'ansia o prescrivere con troppa leggerezza psicofarmaci a soggetti malinconici, vittime di un qualunque disagio o pseudo-depressi, può essere assai rischioso.
'L'espresso' ha verificato sul campo la situazione. Siamo andati a farci visitare, come pazienti qualunque, e siamo sempre stati esaminati da una dottoressa specializzanda. Al suo fianco non un medico strutturato, ma una studentessa ancora più giovane, non ancora laureata. Una tirocinante che assisteva, per apprendere, alla visita di una specializzanda, che a sua volta stava imparando, da sola, sulla pelle di un paziente.
Torniamo un mese dopo: ore 10,30, stesso luogo, seconda visita, stessa scena. Sempre lei, sempre sola, questa volta non c'è neanche un tirocinante a farle compagnia. Con noi abbiamo una telecamera nascosta. Le raccontiamo che la terapia ci ha provocato fastidiosi effetti collaterali. La dottoressa corregge le dosi e comincia a scrivere la nuova ricetta. A quel punto le chiediamo a bruciapelo: "Scusi, lei è una specializzanda?". La dottoressa risponde tranquillamente: "Sì". "Ma lei non dovrebbe visitare da sola: uno paga il ticket di una visita specialistica e si aspetta di trovare uno specialista". "Ma si sa, se uno viene in una clinica universitaria si deve aspettare di essere visitato da un medico che è ancora in formazione". Replichiamo: "Sarà pure una consuetudine, ma non è legale". "Comunque il medico strutturato è nella stanza a fianco". "Ah sì? E chi è? La dottoressa che le dà in prestito il timbro, giusto? Me la fa conoscere?". La risposta è laconica: "In questo momento ha altri impegni, ma se vuole, possiamo organizzare per la prossima volta". Noi insistiamo ancora, con determinazione, e alla fine la titolare salta fuori. La specializzanda si premura di rintracciarla e, dopo oltre mezz'ora di attesa, si presenta. Le chiediamo subito: "Mi aspettavo di trovare lei dietro la scrivania e non la sua allieva". "No, qui in ambulatorio ci siamo organizzati così per le visite. Io però sono di guardia, giro per il reparto e sono reperibile...".
Un'organizzazione lecita? Quando allo sportello del Centro prenotazione (Cup) abbiamo chiesto di pagare un ticket inferiore a quello previsto per la visita specialistica perché avevamo incontrato solo un medico specializzando, ci hanno risposto: "Ma questo non è legale, lo specializzando può soltanto assistere alle visite. Mah, che posso dirle, lì in reparto fanno come vogliono. Non posso farle pagare di meno, però se vuole può presentare un reclamo, è un suo diritto". Anche quella del ticket è una forma di truffa ai danni del cittadino, che paga una cifra per una prestazione qualificata che non ha mai ricevuto.
Ma il raggiro colpisce pure le casse della Regione Lazio, dove il deficit per la sanità continua a sprofondare. Molte comunità terapeutiche per malati psichiatrici sono costrette a chiudere per i tagli alle convenzioni sanità decisi dalla giunta Marrazzo, che ha ereditato un buco di 9,4 miliardi di euro mentre altre voragini continuano a spuntare di mese in mese, l'ultima è di 310 milioni, bruciando ogni volta le previsioni di contenimento della spesa. Eppure strutture come il Policlinico di Tor Vergata riescono a rinforzare il fatturato anche grazie ai rimborsi regionali per visite che al nosocomio costano poco o nulla, grazie all'uso disinvolto dei giovani camici bianchi.
Il meccanismo è anche una manna per i primari. A Tor Vergata il numero uno dell'Unità operativa di psichiatria è Alberto Siracusano, professore ordinario e direttore della Scuola di specializzazione. Grazie agli specializzandi, i primari possono aumentare il numero delle visite contabilizzate dalle loro divisioni: il bilancio si arricchisce e di conseguenza anche il potere contrattuale del docente all'interno della facoltà. Il tutto a danno di didattica e pazienti. Uno dei tanti meccanismi impazziti della sanità italiana. Di sicuro non l'unico. Il Policlinico Tor Vergata presenta anche un'altra anomalia: quella di un ospedale pubblico nuovo di zecca che prende in affitto due piani di una clinica privata, la Sant'Alessandro, per lezioni della facoltà di psichiatria e ricoveri di pazienti psichiatrici. Se in ospedale la stanza del primario è vuota forse è perché trascorre gran parte del suo tempo lì, a una dozzina di chilometri dall'ateneo. O perché si dedica alle visite intramoenia: al telefono la segretaria ci spiega che l'appuntamento privato costa 300 euro. Intramoenia, quindi all'interno del Policlinico? "Intramoenia, ma nel suo studio di Corso Francia". La distanza tra il Polo Universitario e lo studio è di 26,5 chilometri: in mezzo c'è tutta Roma, ma proprio tutta.