
Producendo una cosa che riflette i valori impazziti del mercato artistico, al pari di Warhol e della sua estrema commercializzazione dell'artefatto e di Piero Manzoni e della sua 'Merda d'artista', offerta in grammi alla quotazione dell'oro, Hirst capovolge la prospettiva dei valori. Se prima il collezionista comprava a scatola chiusa qualsiasi traccia creativa, ora è spinto ad assumerla quale lusso estremo, la cui quotazione si esalta con l'artisticità: un gioiello solo per gli eletti. I toccati da Dio non sono i santi, ma coloro che possiedono fortune immense.
A questi Hirst propone un oggetto che supera tutti i limiti economici, non solo per essere coperto di diamanti, ma perché segnato dalla mano del divino artista, la cui partecipazione alla creazione è impagabile, tanto da valere come la corona della regina. Una cifra esorbitante che ricorda che l'arte deve esaltare tutti i suoi valori, portandoli al massimo della perversione e dell'estremismo comunicativo. Quindi ben vengano le proposte di una religiosità dell'arte che continua a ritrarre un presente che crede soltanto nel denaro. È importante che l'artista sbanchi il tavolo, sbattendo in faccia la merda, quanto i diamanti, che simbolicamente provengono dal sedere del diavolo, con l'augurio che il fiume delle monete prima o poi si fermi, cosciente dalla sua uscita dagli argini.