Basta con i miliardi buttati nelle spese militari. Quei fondi vadano a sviluppo e ricerca. L'appello per la pace di Veronesi a Nobel, politici e religiosi
Quando nel dicembre scorso è arrivata la notizia che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva ratificato la moratoria universale della pena di morte, in Italia c'è stata emozione, perché la campagna contro la pena capitale era partita proprio dal nostro Paese. È stata una vittoria in una battaglia di civiltà, e ha premiato la determinazione con cui l'Italia ha continuato a riproporre la risoluzione, presentata per la prima volta nel 1994.
Bisogna però chiedersi, con il coraggio che sfida l'ipocrisia, che differenza ci sia tra l'uccidere con la sedia elettrica o con l'impiccagione, e l'uccidere con i cannoni e con i fucili mitragliatori. Se l'umanità vuole dare una svolta alla propria storia, deve porsi il problema di far cessare le guerre, e di costruire la pace universale. Sono convinto che è il momento di affrontare la necessità etica di lanciare un Manifesto per la Pace.
Vogliamo far partire dall'Italia questa idea che dia vita a una serie di azioni e di impegni che vede il coinvolgimento di molti attori? Vogliamo, dopo l'iniziativa per la moratoria mondiale contro la pena di morte, mettere l'Italia capofila di un movimento con l'obiettivo di dire basta alla guerra, allo sperpero delle spese militari, alle migliaia di morti che ogni anno segnano di rosso i confini di questa terra senza pace?
Il mio non vuole essere uno dei tanti, nobili, appelli alla pace che vengono lanciati ogni tanto e che sempre cadono nel vuoto o rimangono nel limbo delle illusioni. La strategia che propongo è basata su alcuni impegni concreti. Il primo passo: entro l'autunno dell'anno prossimo l'organizzazione in Italia di una grande conferenza internazionale di scienziati, un vero e proprio laboratorio di diverse discipline, per progettare un modello di pace, individuare gli strumenti per realizzarlo e stabilire i percorsi per raggiungerlo.
Sono molti gli uomini di scienza impegnati in un discorso di pace - come Peter Agre, Nobel per la Chimica, Klaus von Klitzing, Nobel per la Fisica o Richard J. Roberts e Gunter Blobel, Nobel per la Medicina - ma operano individualmente e spesso la loro voce si sperde nel deserto. È indispensabile invece creare un movimento unito, che prenda origine dal Linguaggio Universale della Scienza, che proponga soluzioni e indichi operativamente le azioni da intraprendere.
Con diversi scienziati, che da alcuni anni si riuniscono a Petra, in Giordania sono già stati presi i primi contatti. E sono stati contattati i trenta Nobel che firmarono l'appello di sostegno al governo italiano per la moratoria contro la pena di morte.
Per parlare di pace, non si può non parlare di disarmo. Tutte le nazioni, entro cinque anni, dovrebbero diminuire la percentuale del Prodotto nazionale lordo destinato agli investimenti militari. La storia più recente ha dimostrato che le guerre convenzionali sono obsolete. È necessario viceversa costituire e rafforzare delle Forze di Pace (come i caschi blu dell'Onu) con il compito di sorvegliare i territori dove sono presenti conflitti locali perché vengano sopiti.
Nello scenario del futuro si possono immaginare solo due possibili tipi di conflitto: la guerra nucleare e quella del terrorismo. La prima è una prospettiva angosciante, ma secondo molto esperti è un deterrente per la paura dell'annientamento collettivo. Quello del terrorismo, è un pericolo molto insidioso, e non concede possibilità di difesa. Solo una pacificazione etnica, un'aumentata tolleranza reciproca e un ecumenismo religioso potranno cancellarlo.
In questa situazione, è evidente che gli eserciti tradizionali sono inutili, e inutilmente costosi. È un dato di realtà, ed è per questo che il disarmo non è una pura enunciazione di principio. C'è un piccolo drappello di nazioni che hanno rinunciato all'esercito, seguendo l'esempio del Costarica, il quale ha abolito costituzionalmente le forze armate nel lontano 1949, e i soldi risparmiati li ha impiegati per la vita: l'analfabetismo è soltanto al 4 per cento, contro il 30 di altri paesi che lo circondano, e l'aspettativa di vita (77 anni) è la più alta dell'America latina.
Ma i paesi che hanno intrapreso questa strada sono molti: paesi insulari come l'Islanda che ha da tempo applicato il disarmo totale, o le Filippine e la Nuova Zelanda che hanno rinunciato ad apparati costosissimi per creare sviluppo. E vi sono forti movimenti per il disarmo in paesi anche diversissimi tra loro per cultura e ragioni storiche, come l'Austria, il Messico e la Svizzera.
Quale può essere il risparmio? Oggi le nostre forze armate ci costano oltre 30 miliardi di dollari l'anno; la Francia ne spende 53, la Gran Bretagna 60, la Germania 37: insieme queste quattro nazioni spendono 170 miliardi di dollari l'anno. Se potessimo trasferire anche solo una frazione di questa immane forza economica e di quella proveniente da altri Paesi, in una 'Banca mondiale della pace' avremmo i mezzi finanziari per risolvere alcuni problemi di valore mondiale. Ricordo quelli principali, ineludibili: combattere la fame e la mortalità infantile; risolvere il problema dell'acqua; cancellare alcune malattie terribili come la malaria, l'Aids, il cancro.
In un mondo dove ogni giorno si fanno grandi conquiste tecnologiche, deve ormai essere vissuto e percepito come un intollerabile scacco il fatto che non si proceda con i grandi progetti (irrigare il deserto, dissalare gli oceani, sfruttare davvero l'energia solare e il movimento delle maree) in grado di portare benessere dove adesso ci sono ancora flagelli biblici come le carestie. Ci sono problemi ecologici per i quali la scienza ha già individuato soluzioni concrete, ma che non vengono risolti per mancanza di risorse finanziarie: perché si investe di più nei bilanci della difesa che nei bilanci della salute.
La Conferenza dovrà porsi come occasione di dialogo al livello più alto. In un mondo lacerato non solo da colossali differenze socioeconomiche ma anche da conflitti etnici, culturali e religiosi, occorre cercare di fare il massimo di chiarezza. Dovranno parteciparvi perciò esponenti di tutte le religioni, per mettere a confronto senza pregiudizi le proprie convinzioni, e per cercare all'interno delle differenze i possibili punti unificanti. Penso a figure rappresentative come Elie Wiesel, sopravvissuto ai lager nazisti e Nobel per la Pace, che già opera in prima persona per gli incontri che tiene a Petra; ma penso anche ad altri leader religiosi, al Dalai Lama, espressione di un pensiero di tolleranza e di compassione, al re di Giordania, Abdallah II, grande sostenitore del messaggio pacifista. Non dimentichiamoci che la Chiesa cattolica si è schierata con decisione contro la pena morte ed è dissenziente da ogni forma di discriminazione razziale o etica.
Io credo che la gente abbia sete di pace. C'è diffuso e palpabile un senso, direi quasi religioso, di pace. Un risveglio delle coscienze, che aspirano alla pace tra i popoli. È un sentimento che viene soprattutto dalle donne. Sono le donne la voce e la coscienza più forte contro la guerra. Le donne non hanno mai amato la guerra e la violenza. Antropologicamente la guerra è di segno maschile. Era il maschio che doveva difendere il territorio o doveva conquistare altri spazi vitali, e perciò ricorreva alla violenza. La donna che doveva allevare la prole, ha sempre odiato la guerra. Perché la guerra distrugge le case, uccide i figli e i mariti, disperde le risorse. Perché la guerra non mantiene mai la promessa di bene, e crea soltanto morte e caos. Le donne di oggi, che sono uscite dal ruolo ancestrale e che hanno posti di comando e di potere in nazioni importanti, possono fare molto per la pacificazione.
Una Conferenza per la pace è quindi una necessità etica. Non importa che le nuove generazioni dei paesi del benessere non conoscano la guerra, che nei loro ricordi infantili non ci siano l'immenso ruggito degli stormi di bombardieri, lo schianto delle bombe sulle case, le fiamme che illuminano a giorno la notte mentre una umanità disperata cerca di sfuggire alla morte. Non importa, perché si è ormai fatta strada la coscienza che ci dev'essere una pace globale, planetaria. Io penso che negli ultimi decenni la mentalità della gente sia profondamente cambiata, e che abbia messo in comune molti valori. La pace - e ce lo dicono le grandi manifestazioni pacifiste degli ultimi anni - viene considerata il vero patrimonio dell'umanità, più dei capolavori dell'arte.
Un altro motivo per lanciare l'idea del disarmo è di natura geopolitica. La caduta del muro di Berlino sintetizza il cambiamento degli equilibri mondiali. La guerra fredda che teneva in piedi due immense potenze è finita. L'Europa si è unificata, non è più quella di Napoleone, di Bismarck e Talleyrand, né quella di Hitler e Churchill. Le rivalità nazionalistiche che costringevano le nazioni ad allestire eserciti per difendere i propri confini sono scomparse, e anche il colonialismo è tramontato.
Per essere tale, la pace non può che essere universale e perpetua. Il filosofo Immanuel Kant, che era ottimista e credeva nella bontà della natura umana, osò sperare nella fine della cultura della guerra, e nell'avvento di una cultura di pace salutare ed eterna. E lo scrittore Leone Tolstoj immaginò come condizione normale un mondo di pace: "Vedo venire un tempo in cui i principi di fratellanza, uguaglianza, comunanza dei beni, non-resistenza al male tramite la violenza, appariranno così naturali come ci appaiono oggi i principi della vita familiare e sociale". E la lezione di Gandhi rimane un monito.
Chiedere la pace e agire per la pace non è utopia, ma è impegno civile, fede nel futuro. Bisogna recuperare lo spirito della nuova frontiera di John Fitzgerald Kennedy, che diceva: "L'umanità dovrà mettere fine alla guerra, o la guerra metterà fine all'umanità".