La presenza del mio popolo in Siberia ha avuto inizio con i progionieri politici. Ciò che mi interessa di più è vedere come funzionerà il mio cervello in Russia

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Sono le sette del mattino, soffia un vento sferzante e piove a dirotto, e io sto preparando lo zaino, perché domani parto per la Siberia. Non sono mai stato in Russia. Metto insieme un po' di vestiti, le guide e una mappa dettagliata della zona del Bajkal. Due ore per arrivare a Mosca, due ore all'aeroporto di Sheremetyevo, e poi cinque per Irkutsk. È ancora più lontano di Delhi, ma nella coscienza polacca la Siberia, Irkutsk e il Bajkal sono nomi familiari, hanno un'eco del tutto casalinga. Suscitano persino un sentimento simile alla nostalgia.

È un sentimento che ha però un sapore lievemente perverso, poiché la presenza polacca in Siberia ha avuto inizio con i prigionieri politici, i militanti per l'indipendenza polacca e gli insorti che lottavano contro la Russia zarista. In Siberia non ci andava nessuno di propria volontà. Nel XIX secolo era un viaggio che durava mesi e anni, e che nella maggior parte dei casi si faceva a piedi. Solo il secolo seguente e il comunismo sovietico trasformarono i lavori forzati in un'impresa mostruosa e criminale. I prigionieri dovevano venir consegnati in massa, così come in massa venivano assassinati. A centinaia di migliaia, a milioni, li trasportavano qui con treni e navi.

Il confino zarista al confronto era una specie di favola: ecco che un governante severo ma giusto, per tutelare l'integrità del suo Stato e l'equilibrio di forze in Europa, puniva dei ribelli nobili e patriottici. Ovviamente la faccenda non era affatto così pittoresca e romantica. Da una parte c'era un tiranno, un invasore, dall'altra parte invece gente normale, che tentava di conquistare l'indipendenza al proprio paese. Ciò nonostante, quando i ribelli venivano deportati in Siberia, non se ne perdevano le tracce nelle fosse comuni ma, ad esempio, si mettevano a riparare orologi. Oppure a produrre salsicce. O a lavorare negli zuccherifici. O a insegnare le lingue. Aprivano ristoranti, caffè, alberghi. Oppure fondavano scuole. Così almeno succedeva a Irkutsk nel diciannovesimo secolo. La Siberia orientale allora era un deserto culturale. Peggio che un deserto: una terra ignota. Il Bajkal rimase in sostanza inesplorato fino al momento in cui, nel 1868, venne deportato sulle sue sponde Benedykt Dybowski, insorto polacco, medico e studioso.

Non vado sul Bajkal a cercare le tracce dei polacchi. Si sono disperse irrimediabilmente nel passato. A dir la verità vivono ancora laggiù gli eredi dei pionieri della civiltà, ma oggi sono soltanto una goccia nell'oceano russo, o post-sovietico. Vado laggiù perché mi interessa vedere come funzionerà il mio cervello a contatto con la Russia. Mi interessano i miei pregiudizi, le mie prevenzioni, i miei stereotipi. Sono un polacco abbastanza tipico e la mia conoscenza e i miei punti di vista su tutto ciò che è russo sono abbastanza radicati.

Al polacco medio sembra che la pluriennale vicinanza della Russia, ostile e oppressiva, sia una base sufficiente per conoscere questo enorme paese. In tutta la mia vita ho visto forse dieci russi - fra cui lo scrittore Viktor Erofeev - ma prendo la parola molto volentieri quando si parla di Russia e di russi. Ho le mie opinioni e sono curioso di sapere cosa ne sarà di esse quando, alle sei ora locale, atterrerò a Irkutsk. Non ci vuole niente a andare in un paese a cui non si è pensato affatto, oppure in un paese di cui si è sempre pensato bene. La vera avventura inizia nei luoghi dei quali si è succhiata, insieme al latte materno, una conoscenza amara.

Per questo sono inquieto, infilo nello zaino pochissimi vestiti e molti libri per ammazzare il tempo - ad esempio durante la navigazione di dodici ore lungo il fiume Angara fino a Bratsk. Bratsk fa parte della cosiddetta 'sporca trentina' dei luoghi più inquinati al mondo. Oppure fino a Ulan-Ude, dove esiste la più grande statua di Lenin al mondo, un monumento della sua sola testa che misura 10 metri di altezza. Porto con me anche dei blocchi per appunti, per scrivere le mie osservazioni, come durante il viaggio in treno fino alla frontiera cinese.

Questo è il mio piano. Insieme a me viaggia l'amico e traduttore tedesco dei miei libri Olaf Kühl. Vuole scrivere un testo sulla Russia. Gli ho chiesto se ha qualche idea, una chiave. Ha riflettuto un attimo e poi mi ha detto: "Mi limiterò ad osservare te, un polacco, e a prender nota. Dovrebbe bastare, come metodo".

traduzione di Laura Quercioli Mincer