Il 'Mondo' ormai c'è, già venduto a pezzi, ma resterà inedificato e disabitato per chissà quanto tempo. L''Universo', invece, al momento è cancellato: Dio o chi per lui, nella fattispecie la Nakheel corporation, ha finito i soldi. E sono spariti anche i clienti. 'The World' è infatti l'arcipelago artificiale di 300 isole, dai 6 ai 37 milioni di dollari l'una, che riproduce i cinque continenti. E 'The Universe' doveva disegnargli intorno terre a forma di luna, sole, raggi, pianeti, anelli, galassie. Creazioni interrotte, restano segnate su ogni mappa dell'Emirato: perché finora, a Dubai, le cose immaginate erano come fatte, bastava un pensiero nella mente dell'emiro e cantieri aperti giorno e notte con penali salatissime per le imprese che, arrivate da ogni parte del mondo come orsi sulla melassa, tardavano anche soltanto due giorni a consegnare un progetto, un impianto o un lavoro.
Finché a settembre dell'anno scorso, senza preavviso, il divino giocattolo s'è rotto e cose e persone hanno cominciato a sparire come fossero ologrammi di un serial di fantascienza. Via tutti i progetti non in avanzata fase di realizzazione: la lista dei cancellati o rinviati ne riporta 57 negli Emirati, tutti a Dubai meno otto, per 80 miliardi di dollari. Niente più cantieri di notte: "Anche quando interrompere è una perdita eccessiva, non c'è più fretta di innalzare torri dove nessuno comprerà appartamenti e uffici", spiega Khaldoon Saleh, business development manager di Bonyan Group. Cancellato l'hotel 30 metri sott'acqua. Ferma la fase due di Dubailand, che doveva diventare il più incredibile parco di divertimenti al mondo. Termine lavori differito di 12 mesi, benché manchino solo gli ultimi piani, per la Nakheel Harbour and Tower: vanto dello sceicco, la più alta del mondo, affusolata per un chilometro verso il cielo a linee curve irregolari come un missile da fumetto.
Via anche le persone. Da un giorno all'altro si svuotano le case a minor prezzo, piazzate in centro a ridosso del canale dove barche e navi già attraccavano quando trent'anni fa Dubai era poco più che un villaggio di pescatori di perle; i resort da ricchi in Al Safah, Al Wasel, Umm Suqeim a lato di quella highway urbana a 12 corsie che è la Sheikh Zayed road; le lussuosissime ville di Palm Jumeira, l'isola artificiale a forma di palma inaugurata l'anno scorso e non ancora terminata, l'unica costruita e abitata delle tre previste, sospesa la seconda, cancellata la terza.
Le case si svuotano perché la gente è costretta ad andarsene. È la legge. A Dubai, su 2 milioni e 700 mila abitanti, appena 250 mila hanno la cittadinanza (nei sette Emirati degli Uae, 800 mila su 5 milioni): cittadini si è solo per nascita, non lo diventi neppure dopo trent'anni di residenza, per quanto ricco tu possa essere. Gli altri sono tutti immigrati: un esercito di comparse sul gigantesco set dei traffici reali e finanziari tra Medioriente, Asia, Africa e Occidente. Pachistani, bangladesi, indiani, srilankesi, egiziani, giordani, filippini, cinesi, cento e passa nazionalità i manovali, muratori, taxisti, camerieri; comparse, oggi ci sono domani non più, anche gli amministratori delegati e i manager inglesi, tedeschi, americani, australiani o arabi con phd nelle più prestigiose università occidentali. Se perdi il lavoro, a nessuno importa che tu sia un manovale o un manager e, da un anno a questa parte, è irrilevante anche che tu abbia comprato casa: ti ritirano il visto, hai un mese di tempo per andartene, poco di più, a pagamento, se i figli vanno a scuola. Il grosso dell'esodo è previsto per luglio. Con la crisi, in Italia cresce la disoccupazione e il costo per lo Stato, a Dubai cala la popolazione, costo zero per l'erario. "This is a selfish country", sorride amaro il taxista: un paese egoista, che pensa solo ai suoi.
Ciò che è successo a settembre, e che nessuno prevedeva neppure quando la crisi americana era già evidente, è lo scoppio della bolla immobiliare. 'The Dubai bubble' è cresciuta con gli stessi meccanismi della bolla finanziaria mondiale. Solo che qua si maneggiavano appartamenti, case, insomma cose, non crediti inesigibili, derivati immaginari e pacchetti di ignoto contenuto (a parte nel Dubai Stock Exchange, ma non è lì il nodo della crisi). Dubai funzionava come una bolla ma produceva come un'industria. Era il luogo fisico dove lo spirito astratto della speculazione finanziaria, con i suoi numeri e indici e futures, si faceva carne viva, economia reale, gru, tute e caschi di operai e code di acquirenti.
Code, sì. Fino al bagarinaggio di case come fossero biglietti per lo stadio. "Tale era la richiesta, ovunque da parte dei residenti e nelle estesissime 'free zones' da parte degli stranieri, che ogni qual volta Dubai properties, Nakheel, Emaar o un altro costruttore lanciava un'offerta per abitazioni e uffici ancora sulla carta, alle 5 di mattina c'era già una lunga fila al centro vendita. I primi che riuscivano ad acquistare andavano al fondo della coda e rivendevano subito al 5-6 per cento in più", racconta Omar Shorbaji, ingegnere sudanese, sales manager in una multinazionale canadese di telecomunicazioni. "Un mese, e rivendevi al 10-15 per cento in più. La norma era ciò che ha fatto mio cognato: a gennaio 2006 compra 14 alloggi a Marina beach, paga il 10 per cento a rate vendendo ogni volta un paio di alloggi, salda in 18 mesi e gli rimangono due alloggi gratis". Possibile perché lo Stato non preleva tasse. I profitti li fa direttamente come imprenditore: Nakheel è governativa, Dubai properties di Dubai holding è dell'emiro, lo sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, strettissimi sono i legami della famiglia reale con i vertici di Emaar, 70 per cento di flottante, e delle altre public companies.
Perfetto. Ma è una catena di Sant'Antonio. Con la crisi planetaria calano e in un mercato speculativo, subito, spariscono i compratori occidentali. Anche gli iraniani (che fino a ieri acquistavano uno stabile su quattro, basi per le loro attività finanziarie e commerciali a causa dell'embargo, seguiti da indiani, inglesi e solo al quarto posto dai locali), dirottano i loro investimenti verso la Malaysia, sempre più legata al regime degli ayatollah. Chi a settembre non ha ancora rivenduto, si ritrova col cerino in mano, valore dimezzato e debito da saldare.
Molti decidono di lasciare e rimetterci l'anticipo del 10 per cento. Ma questo danneggia i costruttori e siccome il capitalismo sfrenatamente liberista di Dubai è in realtà un modello verticistico di Stato-padrone controllore e controllato, a gennaio una nuova legge obbliga chi recede a versare comunque il 30 per cento del pattuito. Finisce che non hai più scampo e non resta che scappare. Ha un bel dire la polizia che le 3 mila auto abbandonate sul piazzale dell'aeroporto da gente in fuga perché non può più pagare, sono leggenda metropolitana: parli con la operation manager di una grande banca e ti racconta che lei da sola ha ricevuto la notifica di mandarne a ritirare 180.
A ruota del real estate frana tutto il resto. "Crollano i consumi, a cominciare da quelli di lusso: prima una Range Rover la pagavi 20 mila dollari più che negli States e aspettavi sei mesi, oggi te la tirano dietro. I negozi chiudono uno dopo l'altro", racconta Ammar Zawaideh, 31 anni, giordano, che sette anni fa ha lasciato quel "posto per famiglie dove tutto è più lento" che è Abu Dhabi ed è ora direttore finanza e pianificazione di Dubai mercantile exchange, la società di finanza partecipata dalla Dubai holding di proprietà dell'emiro. Al fantasmagorico Dubai mall i turisti vanno a fare shopping sotto l'occhio degli squali che sgusciano nell'acquario: ma perché comprare Versace o Zara o H&M a Dubai a prezzi milanesi? È semideserta anche la Bin Hendi Avenue, il mall di tutti i marchi di lusso, per lo più italiani, della holding guidata da Amna Bin Hendi, giovane icona dell'imprenditoria femminile nella liberale Dubai, dove codici di vestiario e ruolo della donna sono incomparabilmente più elastici che nel resto del mondo islamico.
Il turismo, un quinto del prodotto lordo di Dubai, regge solo tagliando i prezzi. L'Atlantis, il gigantesco hotel che ad arco di trionfo chiude gli Champs Elisées per sole auto dell'isola artificiale Palm Jumeira, inaugurato il 24 settembre allo scoppiar della crisi, ha portato una camera da 4 mila a mille dirham a notte, 220 euro, e i portieri ti spingono come i butta dentro alle Folies Bergères. Il Burj al Arab 7 stelle a forma di vela resta un monumento nazionale il cui modellino ti vendono ovunque in versione portachiavi o placcata oro, ma negli altri 250 hotel sono semideserte le hall che sei mesi fa pullulavano di businessman e architetti venuti a costruire altri alberghi e case e uffici: in una corsa al futuro espressa dalla curva di un'iperbole che ha trasformato Dubai in una sorta di museo dell'architettura contemporanea, con strepitosi grattacieli allineati sulla Sheikh Zayed come fossero villette a schiera.
Quanto durerà la crisi? E cosa resterà della Dubai di ieri? "Vista l'assenza di regole, nessuno sa neppure la reale entità del tracollo", nota Zawaiden di Dme, "mancano le informazioni di base, né le aziende private né l'Emirato sono tenuti a presentare bilanci dettagliati". Ciò che si sa basta per disegnare torvi scenari: nulla sarà più come prima, mai più (vedi l'intervista qui sotto).
La scommessa del miracolo Dubai si fondava su colossali investimenti pubblici in infrastrutture: a conti fatti l'Emirato ha accumulato un debito di 80 miliardi di dollari. 10 dei 15 in scadenza sono stati coperti a fine febbraio solo grazie all'acquisto di nuovi bond di Dubai da parte della Banca centrale di Abu Dhabi, dei sette Emirati della federazione quello che detiene il 90 per cento delle risorse petrolifere. Ma fermarsi ora sarebbe letale. Il metrorail, un nastro soprelevato di 72 chilometri cominciato tre anni fa, la prima di quattro linee, sarà pronto come previsto entro settembre. È l'unico cantiere a non aver subito rallentamenti. L'ultima frenetica vita notturna di Dubai.