Da Michael Cunningham a  Ian McEwan, da  Houellebecq a David Mitchell: dieci titoli recenti per le letture delle feste, visti dal critico letterario de L'espresso

"Una vita come le altre", di Alan Bennett
Devo sconsigliare "Una vita come le altre" (Adelphi, traduzione di Mariagrazia Gini, pp. 172, 17 euro) a quei lettori affezionati dell'Alan Bennett spiritoso e irresistibile di "Nudi e crudi" o "La sovrana lettrice", per citare solo due dei suoi molti titoli. Non che il libro appena uscito non sia un bel libro. È che siamo da tutt'altre parti. In quelle regioni di infinita malinconia e forse perfino di disperazione, che sono l'altra faccia del comico: probabilmente, anzi, il suo presupposto.
"Una vita come le altre" è un memoir. Bennett racconta se stesso e la propria famiglia. E per non lasciare nulla alla fantasia, per non essere tentato di ricamare sui propri ricordi, l'autore aggiunge al testo una serie di foto che certificano quanto racconta. L'esistenza di Walter e Lilian, i genitori, si svolge tutta sotto il segno della necessità di passare inosservati: così, di fronte alle frequenti crisi depressive di lei, di fronte al suicidio del nonno materno, alle disavventure matrimoniali delle zie Kathleen e Myra, ai sentimenti, alle paure e all'inevitabile, doloroso ciarpame che ogni vita trascina con sé, la coppia oppone una curiosa capacità mimetica, una specie di maniacale bisogno di invisibilità. Naturalmente, per paradosso, i due non sfuggiranno alla lente del figlio che diverrà scrittore e che tante volte, nel corso della sua lunga e felice carriera, riprenderà i loro tratti e le loro parole per farne racconto.
Ma c'è un'altra ragione per sconsigliare questo breve e incantevole libro. Ed è la narrazione che Bennett fa della vecchiaia: è così sincera, così straziante, da risultare intollerabile.

"Al limite della notte" di Michael Cunningham
"Al limite della notte" di Michael Cunningham (Bompiani, traduzione di Andrea Silvestri, pp. 286, E 17,50) è un romanzo che richiama alla memoria certa narrativa sofisticata anni Quaranta (Glenway Wescott, per esempio) e il cinema di Douglas Sirk, anche se l'ambientazione è ai giorni nostri. Siamo nella New York colta e affluente (benché fiaccata dalla crisi economica) delle gallerie d'arte contemporanea di Chelsea e SoHo. Peter, il protagonista, è un quarantenne sposato con Rebecca: un loft confortevole, una figlia irrisolta che vive per conto suo, una vita piacevolmente agiata. Colazioni nei ristoranti alla moda, giovani artisti da promuovere, ricchi collezionisti da blandire. In questo piccolo mondo a suo modo dorato, e forse lievemente noioso, irrompe il fratello giovanissimo di Rebecca: Ethan, Erry, l'Errore di due genitori ormai anziani. Bello, seducente, tossico. Fra Peter (il cui fratello maggiore è morto di Aids) e il ragazzo nasce e si infittisce un rapporto complicato, per certi versi morboso: potrebbe sbocciare perfino un pericolosissimo amore, ma poi le cose evolvono in maniera imprevista. Ethan incarna l'idea stessa di Errore. È l'Errore di tutti. Dopo un romanzo non esattamente a fuoco come "Giorni memorabili" (del 2005), lo scrittore americano torna alla scrittura controllata e sensibile, che aveva decretato il successo del suo testo più famoso, "Le ore", che nel 1999 gli valse il premio Pulitzer e da cui fu tratto l'omonimo film. Anche in questo caso, al suo centro è il vasto e inattingibile mistero della bellezza. In più, rispetto al passato, si è aggiunta ora la coscienza della fragilità che l'età matura porta con sé.

"La fattoria delle magre consolazioni", di Stella Gibbons
Una quindicina di anni fa John Schlesinger girò per la Bbc un film che in Italia sarebbe uscito invece nelle sale cinematografiche. Aveva un cast di prim'ordine: fra gli altri, Ian McKellen e Stephen Fry. Si intitolava "Cold Comfort Farm" ed era un autentico spasso. Fu così che scoprii il romanzo omonimo, scritto da Stella Gibbons nel 1932 e da allora uno dei più felici long-seller della tradizione letteraria britannica. Dopo qualche carsica e molto marginale apparizione italiana, quel romanzo vede finalmente la luce anche da noi con il titolo "La fattoria delle magre consolazioni", inaugurando la nuova casa editrice Astoria (traduzione di Bruna Mora, pp. 287, E 17). Ora mettiamola così. Se avete apprezzato la "Zia Mame" di Patrick Dennis, dovreste aver già letto il libro di Stella Gibbons. Dennis è un americano che gioca a faro lo snob: il che è quasi una contraddizione in termini. Il suo sense of humour (stravagantissimo, godibilissimo) è solo una pallida copia di quello che travolge il lettore fin dalle prime righe della "Fattoria". E la ragione è presto detta: se l'autore americano gioca a fare lo snob, Stella Gibbons è autenticamente se stessa, cioè una snob. Tutto comincia con la giovane Flora, ragazza londinese seria, efficiente e con precise pretese intellettuali che, per pure ragioni di interesse economico, si trasferisce presso dei lontani cugini, in una fattoria che definire bizzarra, scombinata e invivibile è un allegro eufemismo. Flora raddrizzerà le cose inesorabilmente, regalandoci una delle storie più divertenti della letteratura anglosassone.

"Solar", di Ian McEwan
Naturalmente, quando si tratta di uno scrittore della statura di Ian McEwan, anche un libro che comincia a girare solo dopo un centinaio di pagine rimane comunque un'opera che il lettore non può e non vuole perdere. È il caso di "Solar" (Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pp. 339, e 20), ultimo parto dell'autore inglese, che appunto fino a pagina 104 mena il can per l'aia e non si capisce che direzione voglia prendere: commedia di costume?, satira socio-politica?, meditazione sui guai dei post-cinquantenni? Dopo un drammatico salto di cinque pagine (la copia capitata in sorte al sottoscritto passa inspiegabilmente da pagina 104 a pagina 109), ci si ritrova invece in uno dei vecchi libri di McEwan. Il protagonista - l'odioso, patetico, debosciatissimo Michael Beard, premio Nobel per la Fisica e collezionista di mogli - incappa nella morte accidentale del suo assistente Tom Aldous. Il quale, però, scopriamo essere l'amante della consorte piuttosto allegra di Beard medesimo. La tragica fatalità potrebbe insomma essere interpretata come omicidio volontario: perciò l'illustre fisico cancella le tracce del suo incontro imprevisto col rivale e si costruisce un alibi (quasi) perfetto, condannandosi a vivere una vita d'inferno...
Da quel momento e sino alla fine, il romanzo acquista una propria necessità. La trama diventa ipnotica, inesorabile, svolgendosi come un incubo notturno - uno di quegli incubi lentissimi e intollerabili da cui ci si sveglia in preda al panico. Tutti i tasselli del racconto vanno al loro posto e, come dicevo, sembra di ritrovare l'atmosfera, il colore del primo McEwan (diciamo, fra "Il giardino di cemento" e "Cortesie per gli ospiti"), solo un po' alleggerito da un certo gusto satirico. Rimane da capire perché le prime centinaia di pagine non siano state opportunamente sforbiciate.

"Il libro dei bambini", di A.S. Byatt
Secondo la giovane scrittrice Chiara Valerio, A.S. Byatt escogita le sue elaborate trame romanzesche, per il gusto di reinventare (e ripraticare) qualche desueto genere letterario: con "Possessione" - il suo libro più celebrato - si trattava di una manciata di poemetti vittoriani; oggi, con "Il libro dei bambini" (Einaudi, traduzione di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, pp. 699, E 25), sarebbe la volta di quelle fiabe gotiche e romantiche, tanto in voga tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Sospetto che ci sia qualcosa di vero. Byatt infatti dissemina la sua ultima fatica di deliziose favole molto démodé, attribuite all'estro della protagonista, Olive Weelwood. E anche nel caso odierno, la capacità della scrittrice inglese di aderire all'epoca che fa da sfondo alla vicenda è di una tale, ossessiva precisione, da lasciar credere che in fondo l'interesse dell'autrice si racchiuda tutto in questo: ricostruire un tempo, un mondo con i suoi tic, le sue idiosincrasie, e nient'altro.
Senonché, mentre in "Possessione" il lettore veniva irretito in una sofisticata detection letterario-poliziesca, nel nuovo testo la trama fatica a procedere e il lettore, pur ammirato dalla maestria di chi scrive, sedotto in particolare da un'orchestrazione solida e piena di finezza, finisce un po' per chiedersi se tanta vastità di mezzi espressivi non giri fatalmente a vuoto, intorno a un centro romanzesco che di continuo pare sfuggire. La storia di Olive, della sua complicata e morbosa famiglia, quella dei loro amici proto-socialisti, fabiani, teosofi e femministe ante-litteram risulta in definitiva troppo pretestuosa e forse perfino non necessaria.

"Il fiume delle cento candele", di Kim Echlin
È una scoperta felice il romanzo "Il fiume delle cento candele" della canadese Kim Echlin (Einaudi, traduzione di Monica Pareschi che è anche ringraziata nella nota finale, pp. 238, E 19,50). Il libro racconta una storia d'amore assoluto e irredimibile, sullo sfondo di quella che è stata la Cambogia degli ultimi decenni, più o meno dalla dittatura sanguinaria e incomprensibile di Pol Pot fin quasi ai nostri giorni. Comincia come una pura e semplice love story. Una ragazza sedicenne di Montreal conosce e si innamora di un giovane cambogiano che studia matematica all'università. Lei è orfana di madre e ha un complesso legame col padre che infatti è gelosissimo del ragazzo. Il quale a propria volta non ha contatti con la propria famiglia perché il Paese ha chiuso le frontiere e all'interno regna il terrore. Quando il regime di Pol Pot cade e è possibile tornare in patria, Serey decide di partire, anche per sapere cosa ne sia stato di genitori e fratello. Per più di dieci anni, lui e Anne non hanno notizie l'uno dell'altra. Finché lei un giorno decide di mettersi in viaggio, per ritrovare l'amante perduto. Questo il succo del racconto. Che naturalmente è molto più complesso, pieno di colpi di scena e svolte romanzesche memorabili.
Kim Echlin possiede un notevole talento per farci entrare nella realtà cambogiana, nella sua cultura, nei meandri non di rado allucinanti della sua storia. Se talvolta indulge in una scrittura che, citando più o meno consapevolmente Marguerite Duras (anche con quel tanto di stucchevole che era tipico dell'autrice francese), ha comunque dalla sua una vicenda straordinaria da raccontare e che il lettore non dimenticherà.

"La carta e il territorio", di Michel Houellebecq
Per chi andasse in cerca di scandali, l'ultimo romanzo di Michel Houellebecq, "La carta e il territorio" (Bompiani, traduzione di Fabrizio Ascari, pp. 360, e 20) potrebbe rappresentare una delusione. Il libro è la storia di un pittore, Jed Martin, si può dire dalla culla alla tomba. Giovinezza difficile (madre suicida, padre introverso fino ai limiti dell'afasia), primi e ultimi amori (Geneviève, Olga), trionfi artistici, rare frequentazioni (fra gli altri, Michel Houellebecq nei panni di se stesso), declino e morte. Nulla di più classico, nulla di meno sconcertante e scandaloso, come la fama dello scrittore francese, parecchio alimentata dai rotocalchi, prescriverebbe.
"La carta e il territorio" è semplicemente il buon romanzo di uno scrittore di talento forse non al suo meglio, ma pur sempre intelligente, controllato, capace di improvvisi scarti - il colloquio col padre ammalato di cancro, una sera di Natale, è toccante e indimenticabile. Nella seconda metà del racconto, Houellebecq si diverte a introdurre anche un elemento giallo: lo scrittore che porta il suo nome, e che non poco ha contribuito alla fama del protagonista, viene trovato ucciso col suo cane, nella casa di campagna, che abita da non molto. Per circa un centinaio di pagine, il testo si trasforma così in un noir vagamente televisivo, poi si trova (per caso) il colpevole, e allora la narrazione ritorna nei suoi binari.
So che Houellebecq risulta antipatico a molti per le cose che scrive e per come le scrive. Questo libro dovrebbe se non altro pacificare gli animi: niente giaculatorie, nessuna invettiva. Se non di tanto in tanto la stoccata di uno scrittore, bravo quanto capriccioso, a un establishment culturale (non solo francese) obiettivamente modesto.

"I mille autunni di Jacob de Zoet", di David Mitchell
Tanto nel 2005 mi aveva convinto "L'atlante delle nuvole" dell'inglese David Mitchell, quanto oggi mi lascia perplesso il suo ultimo romanzo, "I mille autunni di Jacob de Zoet" (Frassinelli, traduzione di Maurizio Bartocci, pp. 585, e 21,50). Intendiamoci. Mitchell si conferma anche in questa nuova fatica (a sua volta, come già la precedente, selezionata per il Booker Prize) uno scrittore di talento rabdomantico e un po' incantatorio, capace di usare i più differenti e complessi registri stilistici. Solo che qui il suo convinto e direi professato postmodernismo sembra inclinare verso una visione meno avventurosa e inventiva della forma romanzo. Provo a spiegarmi. Mitchell ha in passato giocato molto con le proprie trame, componendole e scomponendole come puzzle, costringendo il lettore a continui andirivieni temporali, e non di rado cucendo insieme storie, narrazioni, personaggi, perfino epoche molto diverse fra loro, in una specie di disegno complessivo, che affascinava non solo per la naturale destrezza dell'autore, ma soprattutto per i suoi risultati che combinavano complessità e assoluta leggibilità - un cocktail piuttosto raro, bisogna dire. Questa volta, invece, Mitchell ha scelto un registro solo: ha proiettato il proprio racconto alla fine del Settecento, in un Giappone da illustrazione estremamente stilizzata. Ne vien fuori una specie di diligentissimo "d'après", così preciso nel mimare il gusto e le caratteristiche di quell'epoca da abbagliare il lettore. Il quale tuttavia, in questa storia che si svolge senza particolari colpi d'ala a cui l'autore ci aveva abituato, sente non di rado il brivido di un'elegante, capziosa inutilità.scrive. Questo libro dovrebbe se non altro pacificare gli animi: niente giaculatorie, nessuna invettiva. Se non di tanto in tanto la stoccata di uno scrittore, bravo quanto capriccioso, a un establishment culturale (non solo francese) obiettivamente modesto.

"Congetture su April", di John Banville
Scrivevo tempo addietro che l'irlandese John Banville potrebbe essere un prossimo premio Nobel: almeno, io ci scommetterei. E, ora che ci penso, condivide con un'altra premio Nobel piuttosto recente (2007), Doris Lessing, una sua certa passione per la letteratura di genere. Infatti: mentre Lessing ha firmato parecchi romanzi di fantascienza, Banville firma col nome di Benjamin Black (ma non in Italia) i suoi libri gialli. Ed eccone uno, appena uscito anche da noi: "Congetture su April" (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini, pp. 285, E 17,50). Premetto che, pur avendone scritto uno nel lontano 1992, non amo i gialli. La recente e ormai pervasiva moda mi ha definitivamente allontanato dal genere. Lo dico con sincerità: la detection mi annoia, né di solito mi importa di più scoprire chi è l'assassino. Eppure il libro di Banville l'ho letto d'un fiato, in treno, e quasi rischiando di non scendere alla mia fermata. Siamo in un'Irlanda buia, piovosa e come priva di volto. April Latimer, una giovane medico appartenente a una facoltosa famiglia di cui è la riconosciuta pecora nera, è scomparsa nel nulla da ormai qualche settimana. Se ne preoccupano e la cercano l'amica Phoebe, suo padre Quirke, anatomopatologo e alcolista, l'ispettore Hackett. Naturalmente non dirò nulla di come le cose si svolgono né tantomeno del finale. Tuttavia non è su questi elementi che vorrei attirare l'attenzione dei lettori, bensì sulla strepitosa, sovrana naturalezza con cui Banville tira le fila della sua complicata e appassionante vicenda: altro che giallista, qui siamo davanti a un grande scrittore.

"Tutti gli uomini sono bugiardi", di Alberto Manguel
Alberto Manguel è uno scrittore argentino molto amato dagli editori italiani. Finora i suoi libri sono usciti con Adelphi, Archinto, Nottetempo e Feltrinelli che ora pubblica anche "Tutti gli uomini sono bugiardi" (traduzione di Elena Liverani, pp. 171, E 14). Onestamente mi chiedo il perché di tanto entusiasmo concorrenziale. Intendiamoci: Manguel è un autore di assoluto rispetto, tuttavia i suoi testi (almeno per come la vedo io) non fanno finora pensare che ci si trovi di fronte a uno scrittore strepitoso, un fuoriclasse che giustifica una passione smodata. Forse vincerà il Nobel: ma in questo caso si dimostrerà la sostanziale bizzarria dell'Accademia svedese e magari un senso di colpa postumo verso Jorge Luis Borges. Manguel infatti non ha solo frequentato il grande argentino scomparso nel 1986, ma ne sembra in qualche modo l'erede, o meglio l'epigono. E "Tutti gli uomini sono bugiardi" è del resto un racconto per moltissimi aspetti perfettamente borgesiano. Vi si narra la vita sfuggente e multipla di uno scrittore, Alejandro Bevilacqua, che forse non ha mai scritto alcunché, e la storia è raccontata da quattro punti di vista (uno dei quali è quello di Alberto Manguel medesimo) al giornalista francese Jean-Luc Terradillos che infine, vista l'impossibilità di sceverare il vero dal falso nell'esistenza del personaggio in questione, rinuncia all'idea di biografarlo, con ciò cogliendone forse la più nascosta e capziosa essenza. Anche la scrittura di Manguel riecheggia un certo uso dell'aggettivazione e comunque un sound tipicamente à la Borges. Il libro è piacevole, intelligente, spiritoso, erudito: un ottimo calco.