Niente carne, molta frutta. No al formaggio, bene le patate. Ok per il riso, ma piano col pesce. Quando ci sediamo a tavola possiamo scegliere tra cibi la cui produzione è più o meno nociva per il pianeta

Sogliola fresca 3,3, aragosta 20, gambero surgelato 10. Non sono i prezzi all'etto di un mercato del pesce, ma i chili di CO2 emessi per ogni chilo di ciascun prodotto, calcolato per tutto il suo ciclo di vita, dalla pesca (o allevamento), al consumo e allo smaltimento. Che danno un'idea di quanto la nostra scelta possa avere un impatto sull'ambiente. Sono numeri, forniti dal Life Cycle Assessment Food Database del ministero della Pesca e dell'Agricoltura danese che i ricercatori del Barilla Center for Food & Nutrition (Bcfn) di Parma hanno messo insieme ai dati di tutte le ricerche pubbliche condotte negli ultimi anni sull'impatto ambientale dei diversi alimenti. I risultati - che saranno presentati a Milano al convegno "Alimentazione e ambiente: sano per te, sostenibile per il pianeta" (in live streaming sul sito del Bcfn: www.barillacfn.com) - non riguardano solo gli effetti stranoti della carne bovina, ma quelli della maggior parte dei cibi che si trovano nel nostro frigo e nelle nostre dispense. E ci dicono, per esempio, che tra scegliere gamberetti freschi e quelli surgelati c'è una differenza quantificabile in più di sette chili di gas serra.

Perché è ormai opinione condivisa tra gli esperti che si debba tenere in debito conto quanta CO2 consumiamo con i nostri pasti. E che si debba cominciare a considerare anche altre conseguenze ambientali, come, ad esempio, la quantità d'acqua necessaria alle produzioni. Ma questi parametri, di per sé, non sono sufficienti a orientare le scelte alimentari che, ovviamente, devono tener conto dell'impatto sulla salute dell'alimentazione. Per questo, i ricercatori del Bcfn sono andati oltre la raccolta e l'analisi delle informazioni a oggi disponibili sull'impronta ecologica: hanno annotato i prodotti dal più eco al più invasivo; confrontato l'impronta ecologica all'impronta della salute. E scritto una piramide molto simile alla piramide alimentare della dieta mediterranea, ma invertita.
Affiancando le due figure si osserva come i cibi che secondo le indicazioni internazionali dovremmo mangiare più spesso siano anche quelli con minor impatto ambientale. Senza però limitarsi a dire che frutta e verdura sono l'optimun e la carne è il diavolo. No, i ricercatori sono scesi nel dettaglio. E ci dicono, ad esempio, che per produrre un chilo di formaggio si emettono circa 9 chili di CO2 e servono 5 mila litri d'acqua. Una quantità equivalente di yogurt, invece, comporta un chilo di anidride carbonica e il consumo di mille litri di acqua. Un comportamento eco-friendly vorrebbe quindi che lo yogurt venisse consumato più frequentemente del formaggio. Proprio come consigliato dai nutrizionisti. La coincidenza esiste per la maggior parte delle categorie.

Per capire bene il senso della doppia piramide bisogna innanzitutto tenere conto che il prezzo che la Terra paga per sfamarci è calcolato sulla base di tre indicatori: la Carbon Footprint, che stima la quantità di CO2 equivalente emessa durante tutto il ciclo di vita di un alimento, la Water Footprint che calcola l'acqua consumata o inquinata (e della cui stima si occupa l'omonima organizzazione olandese non profit). E l'Ecological Footprint, che dà una misura di quanti ettari di terra sono necessari per rigenerare le risorse consumate e per assorbire i rifiuti prodotti: attualmente, secondo l'ultimo rapporto del Global Footprint Network, pubblicato lo scorso dicembre, stiamo "mangiando" le risorse di un pianeta grande 1,3 volte la Terra. Significa che per rigenerare quanto consumato in un anno occorrono circa 16 mesi. Tra i vari paesi, le impronte ecologiche più grandi sono quelle degli Emirati Arabi Uniti e degli Stati Uniti. L'Italia è in ventiquattresima posizione, ma le dimensioni del terreno consumato in un anno da ciascuno di noi sono di tutto rispetto: equivalgono a circa sei campi da calcio.
La piramide ambientale tiene conto però solo dell'Ecological Footprint. Per due motivi: è il più completo (considera anche la CO2) ed è facile da visualizzare. Va detto, inoltre, che per molti alimenti non esistono al momento dati sul consumo di acqua. Per le diverse specie di pesce, crostacei e molluschi allevati in acquacoltura, per esempio, la stima risulta troppo complicata, dovendo considerare il ricambio delle vasche e tutta l'acqua utilizzata nel ciclo di vita del mangime. Ancora più complicato stimare quanta ne consuma l'industria della pesca, visto che non è chiaro neanche su cosa raccogliere dati. E anche i numeri forniti dalla Carbon Footprint sono parziali, perché i dati disponibili non tengono conto dei mix energetici dei vari paesi: noi sfruttiamo soprattutto gas, la Svezia l'idroelettrico, la Germania il carbone, ad esempio. Per questo, l'impronta della CO2 non solo è un indice che potrebbe variare molto a seconda di dove l'alimento è prodotto, ma non dà ragione dell'impatto di quelle nazioni come la Francia che utilizzano soprattutto l'energia nucleare.

I ricercatori si aspettano che nei prossimi due anni ci saranno il doppio dei dati disponibili oggi. I numeri potranno cambiare, dicono, ma i rapporti resteranno gli stessi. Per questo la piramide è a fasce e non riporta valori puntuali. Le patate, per cui ora è stimata un'impronta ecologica media di sette metri quadrati, compresa la cottura, potranno alzarsi o abbassarsi di un livello, ma non andranno mai oltre il formaggio, che ne occupa 75.
Per ciascuna classe di alimenti è stato considerato tutto il range di dati pubblici disponibili e sono stati riportati i valori massimi, minimi e medi. Si è così visto, per esempio, che la carne avicola ha un'impronta ecologica di 46 metri quadri. La cifra abbastanza vicina a quelle della carne suina, mentre si sale vertiginosamente con la carne bovina, dove si ha una media di 105 metri quadri. E, sull'impatto ambientale complessivo, il taglio della carne incide non poco: per produrre il filetto si emettono 68 chili di CO2, per la bistecca 42.
Il pescato in generale ha un'impronta ecologica di 70 metri quadri, ma con forti differenze all'interno della categoria. Le più virtuose sono le cozze (40 grammi di anidride carbonica per chilo di prodotto), mentre il massimo si tocca con l'aragosta (20 chili). La frutta è indiscutibilmente l'alimento più ecologico, anche rispetto alla verdura: si utilizzano meno fertilizzati, la raccolta non distrugge la pianta e la resa in tavola è maggiore. Il dato del Global Fooptrint Network riferito all'Italia indica un'impronta di 5-6 metri quadrati, con pochissime differenze tra i diversi frutti. Differenze che esistono tra gli ortaggi coltivati in serra o nei campi. Se si scelgono le colture di stagione, l'impatto è misurabile in tre metri quadri, (anche meno della frutta) mentre quelli in serra lasciano un'impronta grande il triplo. La differenza è ancora più marcata se si guarda alle emissioni: 250 grammi di CO2 contro quattro chili. Anche in questo caso, i consigli dei nutrizionisti sono in linea con quelli di chi si occupa di ambiente.
Infine, per biscotti e torte, per cui non vi sono dati, i ricercatori hanno scelto una ricetta e sommato l'impatto ambientale di ciascun ingrediente. Il risultato indica un'impronta di 30 metri quadri per chilo di dolci secchi. Concludiamo la spesa con il vino: 19 metri quadri in media.

E manca ancora il costo ambientale del trasporto di ciò che portiamo in tavola. Qui i conti si complicano perché il peso ecologico varia da un alimento a un altro, e da un tipo di spedizione a un'altra. Per esempio, le operazioni di trasporto della pasta di semola sono rilevanti sull'impatto complessivo solo se fatti in aereo, mentre sulla frutta il trasporto via camion per oltre 500 chilometri influisce sulle emissioni di gas serra per oltre il 20 per cento.
"L'agricoltura, l'uso del suolo e la deforestazione e il trasporto influiscono pesantemente sui cambiamenti climatici: rispettivamente per il 14, 17 e 13 per cento", commenta Barbara Buchner, direttrice del Climate Policy Initiative di Venezia: "L'incidenza sulle emissioni di gas serra dei fattori legati all'alimentazione sono oggetto di studi approfonditi già da una decina di anni, ma il messaggio è cominciato a passare alla popolazione solo negli ultimi due. Ora si cerca di capire quale sia l'esatta influenza di ciascuna filiera produttiva e come ridurre il consumo di acqua e l'impronta ecologica. La qualità della ricerca è ottima, ma siamo solo all'inizio e questo è il primo tentativo di tradurla in un'indicazione utile per il cittadino. L'idea è quella di applicarla globalmente a tutti i prodotti, e di ottenere le stime dell'impatto di ciascun alimento a seconda del paese di produzione".

Intanto, stando ai dati disponibili, ci basti sapere che l'assunzione di 100 calorie con la dieta nordamericana supera di circa il 58 per cento l'impronta della stessa quantità di calorie assimilate con la dieta mediterranea. "All'interno delle grandi categorie presentate ci sono differenze sostanziali", spiega Camillo Ricordi, dell'Istituto di Ricerca sul Diabete presso la Scuola di Medicina dell'Università di Miami: "Ma non vogliamo proporre livelli di dettaglio incomprensibili per i consumatori. E non ci si aspetta certo che i nutrizionisti modifichino le line guida per aiutare il pianeta. Quello che si cerca di sottolineare è che, all'interno di indicazioni nutrizionali definite, ci sono delle scelte che possono influire in maniera molto diversa sull'ambiente e su larga parte della popolazione mondiale. Il fatto che due terzi dei cereali prodotti al mondo vengano utilizzati per nutrire bestiame d'allevamento dovrebbe far pensare".