Da Savona a Fiumicino, gli imprenditori vogliono costruire migliaia di posti barca. corredati di case, negozi e alberghi. Per far rinascere il turismo e lanciare un investimento a prova di crisi
Sono i moli del marmo, quelli dove da quasi due secoli venivano imbarcati i blocchi di pietra pregiata che hanno reso ricco un angolo di Toscana. Ma adesso anche lo scalo di Marina di Carrara guarda a navi molto più leggere e a un futuro ancora più opulento: quello dei porti turistici, dove ignorando la crisi continuano a ormeggiare yacht carichi di vacanzieri spendaccioni, che sbarcano in cerca di negozi, ristoranti e spesso si comprano pure l'appartamento con vista sulle banchine. Un business passato indenne tra le tempeste finanziarie, che non hanno sommerso i cantieri navali sempre pieni di ordini da parte di ricchi vecchi e nuovi che amano il mare o semplicemente vogliono ostentare il loro benessere. Per questo a Carrara è scoppiata la guerra del porto. Da una parte l'ultimo progetto nato in casa Acquamarcia (leggi il costruttore romano Francesco Bellavista Caltagirone): osteggiato dalle associazioni ambientaliste, prevede più di mille posti barca, edifici residenziali sul lungomare, una piazza con il mercato del pesce e sei ettari di verde pubblico. Dall'altra, un "ecoporto" ideato da un'agenzia di sviluppo insieme all'architetto Stefano Boeri e finanziato da due imprenditori del marmo, Gualtiero Vanelli e Giacomo Sacchelli, con oltre 600 ormeggi da far sorgere in mezzo al mare a ridosso della diga foranea, sormontata da pale eoliche per l'energia elettrica e un sistema di sfruttamento del calore del mare per gli impianti di condizionamento. Una sfida serrata per dare un nuovo sbocco alle ambizioni di rilancio turistico di un centro incastonato tra la Versilia e le Cinque Terre e incassare una concessione demaniale molto ambita. Perché i dati sembrano confermare come un porto turistico riesca a mettere gli investimenti al sicuro dalle bufere dei mercati, grazie al fascino delle vele e alla solidità del cemento.
La Riviera apuana non è l'unico lido dove, nei prossimi anni, nascerà un mega approdo dai tratti sempre più simili a un centro commerciale futuristico. Da Trieste a Roccella Jonica passando per quasi tutti gli 8 mila chilometri di costa italiana, sono decine gli studi pronti a ridisegnarne il volto a suon di moli con un retroterra di infrastrutture più o meno appariscenti. "Alcuni sono in fase conclusiva e altri ancora agli albori, ma si stima che nei prossimi anni prenderanno forma 40 mila nuovi posti barca sparsi lungo la Penisola, che vanno da aggiungersi agli attuali 140 mila", spiega Roberto Perocchio, presidente di Assomarinas, l'associazione italiana porti turistici. Una cifra considerevole, ma che impallidisce se confrontata con la media dei neo campioni del mondo (in Spagna sono 50 i posti barca per chilometro di costa mentre in Italia non arrivano a 20), per non parlare dei cugini francesi, i più attivi del Mediterraneo con 72. Il volto delle marine che verranno però è quanto più lontano si possa immaginare dai romantici golfi un po' decadenti tipici dei borghi di pescatori, foto da cartolina come la Corricella di Procida o la Porto Venere di Lord Byron: oggi quando si disegna un porto, quasi sempre si parla in parallelo di sviluppo residenziale, hotel a cinque stelle, centri commerciali e divertimenti a terra da mille e una notte. "Si va sempre di più verso una modernizzazione", continua Perocchio, "il modello diffuso è quello del marina resort, che lega il recupero di aree dismesse ad una forte componente immobiliare e di servizi ben diversi da quelli nautici. Non si deve però eccedere nell'eleganza perché quello che conta è l'efficienza della gestione e la sostenibilità dei costi da parte dell'utenza".
In Liguria già da una decina d'anni è stato approvato il piano della costa, che ha previsto 10 mila nuovi approdi in una regione già prima in Italia per offerta. E dopo la consegna recente dei mille posti barca avvenuta nel colossale scalo di Imperia, entro la fine del 2010 si attende la fine dei lavori a Loano, in provincia di Savona, dove Salvatore Ligresti non ha badato a spese per esordire nel business: mille ormeggi, uno yatch club di lusso con quattro suite e maxi Jacuzzi sul tetto, edificata vicino alla spiaggia privata lunga 200 metri e sormontata da una discoteca esclusiva. Gli analisti sostengono che l'investimento superiore ai 120 milioni godrà di un rendimento del 16 per cento annuo, grazie alla vendita dei posti e alla gestione diretta. La percentuale a doppia cifra, le liste d'attesa per un mettere l'ancora nelle località più richieste e le potenzialità di crescita del settore creano un mix invitante per chiunque possieda ingenti capitali. Come Roberto Colaninno, che dopo i cieli di Alitalia si è lanciato alla conquista del mare. L'imprenditore mantovano ha deciso di destinare al diporto turistico una parte dei 45 mila metri quadri di sua proprietà a Pietra Ligure, dove una volta sorgevano i cantieri navali Rodriguez. Un progetto minore (un centinaio di panfili) ma corredato di accoglienza da reggia.
Nel Tirreno invece sta nascendo un gigante, con i piedi piantati nella costa e le braccia protese verso la Sardegna: è il masterplan di Fiumicino, pronto a diventare lo scalo più grande d'Europa. Dove una volta si muovevano le triremi romane sorgerà grazie ad un investimento di 400 milioni di euro un attracco per quasi 1.500 scafi di tutte le dimensioni, che andrà a occupare tra terra e mare una superficie totale superiore ai 129 mila metri cubi. Cantieri per accogliere velieri e motoscafi, cinema multisala, resort extra lusso e persino una "torre delle suites". Una città nella città, a pochi passi dall'aeroporto internazionale che regala al progetto un vantaggio senza rivali: gli oligarchi di tutto il mondo potranno lasciare lì i loro galeoni moderni, arrivare in volo da qualunque destinazione e prendere il largo nel Mediterraneo. Non c'è isola greca o spagnola che possa contare su un hub a portata di taxi e su una metropoli come Roma a meno di 30 chilometri. Un business che però non convince gli ambientalisti, a cui tutta questa colata di cemento e l'alto rischio di deturpare un territorio già ampiamente penalizzato non piacciono. Oltre alle proteste contro la posa bipartisan della prima pietra (erano presenti sorridenti sia Renata Polverini che l'allora sfidante Emma Bonino), Legambiente ha consegnato infatti la bandiera nera nel 2009 a Iniziative Portuali, la società formata da Caltagirone, Italia Navigando e altri soci.
Nel Sud il protagonista delle banchine è proprio Italia Navigando. Nata nel 2002, questa realtà pubblica (quasi il 90 per cento è della holding del Tesoro Invitalia) presieduta da Ernesto Abaterusso gestisce gioielli come la Marina di Capri o quella di Procida. "Alla fine del 2008", racconta il presidente, "si sono sbloccati finalmente i 48 milioni di fondi Cipe stanziati tre anni prima, destinati a finanziare una parte degli accordi quadro in programma con il Friuli Venezia Giulia, la Sicilia, la Campania, la Sardegna e la Puglia. Quest'ultimo è l'unico già firmato: che prevede la costruzione dei porti di Gallipoli, Trani e Margherita di Savoia. Anche le Regioni parteciperanno all'investimento".
Ma l'attività non si ferma qui: oltre a Fiumicino, nel suo futuro ci sono il progetto della Marina di Vigliena a Napoli, comprensivo di fitness center e terme: una volta ultimato sarà la più grande marina della città con 853 posti barca. E quello di Anzio, con una quota del piano da 160 milioni per un migliaio di posti. "L'obiettivo di Italia Navigando è di aumentare il numero di porti in gestione sino a creare una vera rete portuale", spiega l'amministratore delegato Andrea Ripa di Meana: "A differenza di molti operatori del settore soprattutto immobiliari, la nostra focalizzazione non è sulla fase di costruzione delle opere, ma su quella della gestione a lungo termine, volta ad offrire servizi di alta qualità, massima trasparenza e impulso allo sviluppo turistico del territorio. Abbiamo in cantiere molte iniziative, che richiederanno investimenti per 850 milioni, di cui 300 di nostra competenza".
L'intervento pubblico nell'affare del diporto è comunque secondario rispetto alla flotta di investitori privati, che navigano tra gli scogli della burocrazia. "Il grosso dello sviluppo lo si deve a grandi gruppi, come i Cozzi Parodi in Liguria, i Molinas in Sardegna o Acquamarcia", commenta Luciano Serra, presidente di Assonat, l'associazione porti turistici, "esistono però alcuni imprenditori locali che hanno deciso di mettersi in gioco in prima persona, soprattutto nel Sud". Tutti soggetti che sono disposti ad aspettare dieci anni tra la conferenza dei servizi e la concessione demaniale, attese che hanno scoraggiato gli investitori stranieri rendendo la partita tutta italiana. Mentre il decennio di bonaccia ha favorito nuovi paesi emergenti, dal Montenegro alla Turchia, felici ospitare yacht stranieri.
Adesso siamo a un punto di svolta, come sostiene Anton Francesco Albertoni, presidente di Ucina, Unione nazionale dei cantieri e delle industrie nautiche: "Sia perché il Consiglio dei ministri ha finalmente approvato la riconversione degli spazi non usati dai mercantili o dai crocieristi nelle aree delle autorità portuali, sia perché sta per entrare in vigore il federalismo demaniale". Che tutti sperano possa semplificare gli accordi su canoni e licenze. "Non dimentichiamo infatti che il turismo nautico genera l'indotto a terra più alto. Banchine o moli vanno visti come delle risorse importantissime", aggiunge Albertoni, "tenendone però sempre bene a mente l'impatto ambientale". La Regione Toscana, per esempio, ha appena modificato il suo master plan puntando su una riduzione del cemento: più ormeggi, meno infrastrutture a vantaggio di "clienti medio-bassi".
Da parte sua l'Ucina qualche anno fa ha presentato insieme a Legambiente un rapporto dove si mostrava l'esistenza potenziale di 40 mila posti barca, disponibili subito senza dover costruire niente di nuovo: vele al posto di pescherecci che hanno le reti sempre più vuote o nuovi pontili tecno funzionali al posto di ormeggi dimenticati. Finora non si è mosso quasi nulla, ma i due promotori dello studio sperano che il federalismo riesca a smuovere le acque anche nei porti.