Villaggi dati a fuoco. Stragi. Crocifissioni. Da anni l'etnia Karen è vittima di un olocausto perpetrato dalla giunta militare. Ora un gruppo di donne ha consegnato un agghiacciante dossier alle Nazioni Unite
Blooming, Fiorente, è il nome che ha scelto per comunicare con il mondo esterno. Arriva in motorino attraverso le strade ormai buie e semideserte di Mae Sot, al confine tra Thailandia e Birmania, dopo una riunione di ore con altre donne della Karen Woman Organization. È un organismo dove si raccoglie in esilio una piccola costellazione di gruppi femminili di questa etnia, divisi spesso da usi, costumi, religione, ma accomunati dal dramma della guerra nei loro luoghi d'origine, da decenni sotto il controllo dall'esercito birmano. Facile immaginare dall'espressione stanca di Blooming, che segue la fede battista, le discussioni estenuanti tra i diversi orientamenti buddhisti, animisti, cristiani (un sesto del totale) sul modo migliore di promuovere la causa karen. Pochi sanno, al di fuori della cerchia degli esperti di diritti umani, ciò che i karen sopportano in una striscia di terra isolata da tutto, nel militarizzato sud-ovest birmano.
Così è nato un dossier redatto in gran parte da Blooming grazie al difficile e pericoloso lavoro svolto in diversi anni, villaggio per villaggio, tra i distretti di Papun, Dooplaya, Thaton, Nyaunglebin, Pa-an.
Diversi team di donne della Kwo sono partiti da Mae Sot, senza macchine fotografiche e telecamere per motivi di sicurezza. Dopo aver girato diversi campi profughi lungo il confine e ascoltato le storie delle donne scappate dalle zone di guerra, le inviate della Kwo sono entrate clandestinamente in Birmania per contattare i kaw kisa, i capi maschi delle comunità rurali devastate dal conflitto. Ma presto hanno potuto scoprire che negli ultimi anni gli uomini sono quasi scomparsi dai villaggi, per diventare guerriglieri o per sfuggire in esilio alle persecuzioni. Anche il posto dei kaw kisa era stato preso da coraggiose kaw kisa mux, le donne-capo, nella speranza che i soldati potessero mostrarsi meno brutali verso di loro. Ma basta leggere le testimonianze, ora inviate anche alle Nazioni Unite, per capire come mai al dossier sia stato dato il titolo: "Camminando su coltelli affilati".
Il testo completo riporta 95 storie di donne tra i 25 e gli 82 anni, in gran parte ex kaw kisa mux, qualcuna ancora in carica. Ognuna di loro, indistintamente, si è trovata a mediare in condizioni di perenne pericolo tra truppe militari del Consiglio per la Pace e lo Sviluppo (sigla dei generali birmani), i loro alleati karen dell'Esercito democratico buddhista (Dkba), i guerriglieri separatisti del Karen National Union, e infine i propri stessi paesani. Troppo spesso hanno assistito impotenti all'esproprio di riso, polli e maiali, alle razzie di donne, alla fame, alla deportazione, a rappresaglie brutali, a violenze carnali, perfino alle crocifissioni di uomini e donne. Loro stesse hanno pagato con la vita o con tragedie familiari di ogni genere la decisione di accettare l'incarico di capi villaggio. "È stato come scavarsi la fossa con le proprie mani", racconta Daw Way Way Thein, cinquantunenne del distretto di Thaton.
Naw Htu Pit, una karen del distretto di Pa-an, ha smesso di dirigere il villaggio quando "sono stata costretta a seguire con la forza il capitano Myint San del battaglione 108. Sono stata violentata ma non voglio parlare di questo. I miei figli ora sono grandi e non voglio che si vergognino di me. Ero andata in segreto a portare del cibo a una ragazza in campagna, e quando i soldati l'hanno vista hanno stuprato anche lei. Aveva solo 14 anni. L'esecutore era il capitano Tun Oo dal battaglione 28".
Non sempre le testimoni sono in grado di rivelare i nomi dei soldati più crudeli, come quelli che rapirono la figlia quindicenne di una delle capovillaggio di Dooplaya, diventata pazza per il trauma.
Nella stessa area Daw Pyone May, 53 anni, è stata protagonista di un episodio che ha messo a dura prova anche la sua stabilità mentale. "L'esercito birmano", dice, "sparò coi mortai contro il villaggio e molti innocenti vennero uccisi o feriti. Delle dieci vittime cinque appartenevano alla stessa famiglia. Ho chiesto il permesso di vedere i cadaveri e quando me li sono trovati davanti ho perso il mio cuore. Non posso esprimere più di questo, è troppo doloroso per me ricordare lo stato orribile di quei corpi di innocenti. Ma ho dovuto organizzare la loro sepoltura, è stato il mio dovere più triste".
È dal giorno della liberazione dagli inglesi (ai quali i karen furono devoti alleati contro principi e generali birmani) che questa etnia paga quasi in silenzio, giorno dopo giorno, la sua fedeltà. A poco è servito anche l'interesse suscitato a Hollywood dal "Rambo IV" di Sylvester Stallone, ispirato proprio all'oppressione dei karen. Ma la storia del "popolo di Meiktila", il lago delle Lacrime cadenti, va indietro nei secoli, quando i principi guerrieri del Myanmar presero a trattare la seconda minoranza del Regno peggio degli animali. I racconti della guerra contro il Siam (attuale Thailandia), descrivono l'abitudine dei soldati birmani di usare i karen come portatori (succede ancora oggi) e di praticare dei buchi nelle loro orecchie per farci passare gli spaghi del giogo, impedendogli così di scappare durante le lunghe marce nella foresta.
I karen hanno un passato di sottomissione sotto ogni regno o regime, non avendo mai avuto un proprio Stato, né una terra promessa. Solo gli inglesi, a parole, volevano dargliene una. Ma poi furono costretti ad andarsene, lasciando gli ex alleati al loro destino. Il Karen National Union nacque principalmente per iniziativa di leader cristiani che erano stati educati dai britannici, salvo poi vedervi confluire volontari di ogni religione. Ma presto una larga fetta di buddhisti, stanchi della egemonia cristiana sulla guerriglia, si staccò dalla leadership e si alleò all'esercito birmano sotto la sigla Dkba.
Secondo le testimonianze delle donne capo-villaggio, questi militanti sono diventati dei nemici della propria stessa gente. "Ogni anno", racconta Daw San Pyu, "il Dkba pretende 2 mila tetti di palme intrecciate e io devo commissionarli ai miei paesani e consegnarli. Nel 2001 un esattore del Battaglione numero 1 venne ferito da una mina e tutta la gente del villaggio, me compresa, fu minacciata e picchiata".
Per Blooming, fuggita dalla Birmania nel 1988 durante le rivolte studentesche e i rastrellamenti casa per casa, tirare fuori le storie delle capo-villaggio e farle conoscere al mondo è stata una missione. Il suo impressionante rapporto va ad aggiungersi agli altri che da anni si accumulano sulle scrivanie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni dei diritti umani del tutto impotenti di fronte al potere dei militari birmani, protetti dall'appoggio cinese, oltre che russo e ora anche indiano.
Le protagoniste di molte delle 95 storie descritte vivono ancora nei sette campi profughi che ospitano più di 120 mila persone e dove sono spesso nati e cresciuti i loro figli, oggi adulti. Qualcuna è operaia nelle fabbriche tessili thai dove si lavora 12 ore al giorno per guadagnare il pasto quotidiano e qualche soldo da mandare a casa. Altre vivono come possono in un'attesa senza tempo tra baracche e tende, sfamate dalla misericordia delle organizzazioni religiose e umanitarie. Ma per quelle rimaste all'interno della cortina di ferro l'incubo resta, e il lieto fine è relegato ai soli film di Hollywood.