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Cultura
settembre, 2010

Nove volte Gassman

È stato il simbolo del cinema italiano. Ma anche un grande interprete teatrale. In una straordinaria rassegna, i capolavori del Mattatore. In edicola con L'espresso

L'addio alle scene Vittorio Gassman ha continuato a darlo per circa vent'anni, prima di quello definitivo, nel 2000. Un po' per scaramanzia, come ad esorcizzare l'ineluttabile uscita di scena, e un po' per civetteria. Diceva: "Sono stufo di andare in tournée in giro per l'Italia a far finta di essere un altro". Ma il bel documentario "Vittorio racconta Gassman" di Giancarlo Scarchilli, prodotto da Maurizio Carrano per Studio Immagine (sarà presentato al Festiva di Venezia e distribuito poi da L'espresso) inizia con il grande attore ormai più che settantenne, seduto comodamente su un divano, che consiglia ironicamente a tutti di fare l'attore, mestiere bellissimo che permette di campare senza fare nulla, se non un trascurabile impegno per un paio d'ore alla sera. In circa ottanta minuti il documentario racconta un'affettuosa epopea ripercorrendo una carriera straordinaria e unica con la guida del figlio Alessandro e con le testimonianze di colleghi, registi, amici, complici, di teatro e di cinema, italiani e stranieri. Il filmato presenta documenti teatrali, cinematografici, televisivi, alcuni anche inediti: dall'esperienza utopica del Teatro Popolare Italiano, il grande tendone da circo che ospitava testi come "Adelchi" di Manzoni in giro per un Paese ancora ignaro di decentramento; alla televisione, frequentata saltuariamente ma con intuizioni profetiche come "Il Mattatore" del 1959, primo vero programma contenitore, o la puntata di "Canzonissima" del 1972 dove l'attore riempì lo studio con un grande circo personale invitando i suoi condomini in base ai millesimi, i soci del circolo del tennis, montando a cavallo e presentando al grande pubblico anche la mamma, quella famosa, adorata mamma che lo costrinse a fare l'attore avendo intuito molto presto il talento del figlio adolescente; alla registrazione su pellicola del suo "Amleto" giovanile del 1952. "Consiglio a tutti gli attori di fare Amleto, ma nell'età giusta, verso i trent'anni", diceva in polemica con gli amleti di allora spesso di età geriatrica.

Gassman sosteneva che l'attore fosse metà sacerdote e metà puttana e questa identità schizofrenica l'ha esercitata in tutti i territori da lui esplorati fuori dal teatro: il cinema e la televisione ma anche le scuole di recitazione e persino la pubblicità e i fotoromanzi. Territori esplorati comunque e sempre ai più alti livelli e guidato dalla bussola di un'ironia e di una costante qualità intellettuale.

L'attore genovese ha segnato la scena del dopoguerra e degli anni Cinquanta, almeno fino all'esperienza del Teatro Popolare Italiano del 1960, come un'ibrida figura araldica divisa tra la superbia del suo fastoso egocentrismo scenico e la necessaria umiltà della dedizione ai testi interpretati. Insieme emblema del mattatore di tradizione ottocentesca ed emblema dell'interprete moderno, consapevole di dover conciliare un felino istinto istrionico con la riflessione culturale. Insomma, egocentrismo scenico e intelligenza dei testi.

Grande attore e grande egocentrico, è quasi sempre riuscito a produrre gli anticorpi necessari a mitigare le sue più esasperate esibizioni di mattatore della scena. Ha saputo scaldare un certo algido atteggiarsi statuario (per esempio nei personaggi alfieriani), come scolpito dal vento raggelante del Neoclassicismo, con qualche folata e qualche bagliore del Romanticismo. E ha saputo adattare la sua abituale recitazione ipertesa anche a più dimessi e "sociologici" personaggi contemporanei, incanalando il suo istrionismo atletico, muscolare, verso ruoli che facessero emergere una sua vocazione clownesca: antiaccademica e per paradosso antigassmaniana.

Può stupire, ma per un attore come Vittorio "ci vollero ben quaranta film per ottenere qualche risultato anche nel cinema", così mi raccontava e si raccontava nel '92 in occasione del nostro libro-chiacchierata "Il mestiere di attore". Iniziato grazie a Mario Monicelli che "era uno dei pochi registi di cinema che andava anche a teatro.

Mi vide ne "I tromboni" di Zardi dove risaltava la mia capacità un po' scimmiesca di disegnare caratteri. Monicelli mi scelse per "I soliti ignoti" impuntandosi contro i produttori e cambiandomi i connotati: mi modificarono col trucco orecchie, fronte, naso. Non osava riprendermi con la mia vera faccia. Lo ha fatto poi Dino Risi ne "Il sorpasso"" che è sempre stato uno dei film prediletti da Gassman. Con Risi - come sappiamo - "un affiatamento che è stato quasi una storia d'amore durata quindici film. Una notte la passammo a dirci dove saremmo scappati insieme se fossimo stati froci, tanto era forte l'intesa. Si parlava, si complottava, perfino durante le riprese e c'era molta improvvisazione. Un'aggiunta preziosa al mestiere teatrale".

Vittorio raccontava che così la pratica del cinema aveva finito per influenzare anche il suo modo di essere attore di teatro. E negli ultimi anni di quella sua unica e sfolgorante carriera - "Ho fatto un mestiere che non era il mio, l'ho fatto benissimo" - mise su spettacoli che erano anche pretesti, opere volutamente aperte e libere in cui fece confluire dettagli, effetti che, per sua stessa ammissione, non avrebbe mai potuto creare senza quell'esperienza formativa, come una seconda vita, di attore di cinema.

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