Come abbiamo rivelato qualche giorno fa, alla festa dei Gigli di Napoli c'era un prete che benediva i simboli delle cosche. Ma non è un caso isolato: le processioni e le feste dei santi si trasformano spesso in esibizioni dei clan. E la Chiesa tace

Quando Cristo s'inchina al boss

Anche Gesù Cristo s'è dovuto inchinare di fronte all'arroganza dei boss. È la primavera del 1996 e Raffaele Laraspata tenta di scalare la Sacra corona unita. Per la sua investitura a dominus di Bari vecchia serve un gesto plateale. Così, la processione dei Santi viene interrotta dai suoi guardaspalle. Sulla processione planano le sue 20 "rondini", armate di tutto punto, che fermano il corteo e costringono i fedeli ad abbassare il Calvario di Gesù. Laraspata, arrestato due anni dopo e poi diventato collaboratore di giustizia, si avvicina con passi solenni alla statua piegata in avanti.

E quando infine il boss cinge al collo del Cristo una collana d'oro, dalla folla scatta l'applauso. Il boss è sul trono, nel nome di Dio. La festa dei gigli del quartiere Barra di Napoli (raccontata nella video inchiesta dell'"Espresso" realizzata da Claudio Pappaianni e Andrea Postiglione) non è l'eccezione ma la regola di come il fervore popolare trasmuti in rito sacrilego, assecondando il desiderio mafioso di usare la religione come metodo di legittimazione, per il controllo sul territorio o per la gestione dei conflitti all'interno delle proprie compagini. Le processioni diventano il momento per cementare il consenso intorno al potere criminale. E se a Barra i padrini scendono in strada per suggellare la pax mafiosa, in Campania le celebrazioni patronali vengono strumentalizzate anche per ossequiare chi comanda nonostante sia finito nella rete della giustizia.

Ogni anno a metà maggio a Castellammare di Stabia, nel quartiere di Portosalvo, si celebra la festa di San Catello. Tradizione esige che la statua venga portata a spalla lungo le vie del rione. Ma quest'anno San Catello s'è dovuto fermare sotto la casa di Renato Raffone, boss camorrista agli arresti domiciliari. Quando Luigi Bobbio, l'ex magistrato sindaco del comune campano, s'è accorto di quel che stava accadendo, ha ordinato di andare avanti. Ma i portantini non hanno fatto un passo. È stato un solo attimo e un leggero inchino della statua del Santo ha reso omaggio al capoclan chiuso tra le mura domestiche.

Dalla Puglia alla Calabria, dalla Sicilia alla Campania, gli schemi non cambiano. Da sempre. Mezzo secolo fa il capomafia di Riesi, Francesco Di Cristina fece bloccare sotto il balcone di casa sua la processione della Madonna della Catena, patrona di quel piccolo comune nisseno. Poi l'anziano boss si affacciò presentando alla Vergine e ai suoi concittadini il figlio Peppe: l'incoronazione ufficiale dell'erede, di fronte agli uomini e di fronte a Dio. Spesso i vertici della Chiesa non affrontano queste situazioni con il dovuto rigore, considerandole un male minore. E il peso di rendere legale il sacro ricade sui preti di trincea. Così veniva chiamato don Pino Puglisi, il parroco palermitano massacrato dai killer, ostinato nel rifiutare le offerte economiche che il clan Graviano metteva a disposizione per le feste religiose del quartiere Brancaccio.

Come ricorda il Vescovo di Acerra, Don Riboldi, "la camorra domina i cuori e le menti. Impedisce ai ragazzini di andare a scuola, perché è lei che li vuole educare. Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota". Alle parole di Don Riboldi fa eco la posizione di Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento: un anno fa ha chiesto di "abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto se poi nessuno denuncia e la cultura mafiosa è l'unica ammessa".

"Non si può immaginare che tocchi ai magistrati fermare i meccanismi che consentono alle organizzazioni criminali di controllare le cerimonie religiose". Marzia Sabella, il pm dell'Antimafia di Palermo, unica donna ad aver partecipato al pool che cinque anni fa pose fine alla latitanza di quel Bernardo Provenzano che utilizzava il Vangelo per comandare e comunicare, è convinta che questo compito spetta alla società civile: "Bisogna anche avere il coraggio di dire che se una processione si ferma sotto casa di un pregiudicato per mafia non viene commesso alcun reato.

Di sicuro, però, viene dato un pessimo esempio alla comunità e questi sono comportamenti inaccettabili". Per Sabella non esiste una ricetta "giuridica" per fermare le sfilate dei santi con la coppola: "Occorre buon senso, buona volontà e la forza di dire no a questi condizionamenti da parte di chi, dalla Chiesa, viene chiamato a organizzare le processioni".
Ma ci sono clan che non sono disposti a rinunciare all'aureola. Lo hanno dimostrato a Sant'Onofrio, comune della provincia di Vibo Valentia già sciolto per infiltrazioni mafiose, dove da secoli nella notte del Venerdì Santo si tiene la processione dell'Affruntata. L'anno scorso il rito è stato sospeso per fronteggiare la rivolta della 'ndrine locali, scese sul piede di guerra contro la direttiva del vescovo di Mileto, Luigi Renzo.

Il prelato vietava a chiunque fosse vicino alle cosche di portare a spalla le statue dei santi durante la processione. Immediata la reazione, con la spedizione punitiva contro Michele Virdò, il priore della Confraternita reo di avere eseguito la direttiva: raffiche di mitra contro la sua casa, nel pieno della notte di Pasqua. La processione è stata spostata di una settimana, con i fedeli protetti da carabinieri e polizia. Una vittoria della legalità? Probabilmente sì, ma per far risorgere Cristo senza l'ausilio delle 'ndrine in Calabria hanno impiegato quasi vent'anni.

Il primo tentativo della Chiesa per liberare le processioni dall'ombra dei clan risale al 1993. L'allora arcivescovo di Crotone, Giuseppe Agostino, con una lettera a tutti i parroci ordinava "lo scioglimento dei comitati per l'organizzazione delle feste poiché di alcuni di questi organismi, soprattutto in passato ma ancora nel presente, fanno parte persone che sono indicate come appartenenti ad organizzazioni mafiose". E lo faceva, per evitare che decisioni così gravi siano lasciate alla responsabilità o alla timidità di singoli parroci e comunità parrocchiali.

Anche la chiesa siciliana ha i suoi problemi. Il coperchio sugli interessi mafiosi attorno alla festa di Sant'Agata, patrona di Catania, è stato sollevato tre anni fa da un'inchiesta che ha portato al processo dei mammasantissima della mafia etnea. Secondo la ricostruzione dei magistrati, la storica famiglia catanese dei Santapaola riusciva ad imporre il suo dominio nella festa cittadina, sia attraverso la gestione del Circolo Sant'Agata, sia attraverso lo spasmodico controllo dei tempi della processione. Anche a Palermo, il festino di Santa Rosalia, la più antica celebrazione sacra del Mediterraneo, è stato più volte lambito dal sospetto dell'influenza mafiosa. Ma le indagini che ipotizzavano estorsioni a carico della famiglia Abbate, i signori della Kalsa di Palermo, si sono chiuse con un nulla di fatto.

Terra di paradossi la Sicilia, dove può anche accadere che, fianco a fianco, si trovino in processione chi fa la lotta alle cosche e chi invece è sospettato di farne parte. "E adesso che facciamo?", si chiedevano i poliziotti chiamati a scortare Rosario Crocetta, sindaco di Gela, minacciato più volte per il suo impegno antimafia, quando, il Venerdì Santo di tre anni fa, a fianco del primo cittadino gelese sfilava Carmelo Barbieri, presunto boss con una condanna a 24 anni di reclusione. Barbieri era a piede libero solo perché le motivazioni della sentenza a sua carico erano state depositate in ritardo. E proprio Crocetta aveva sollevato il caso di quell'errore giudiziario. Per poi trovarsi a sfilare insieme.

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