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Cultura
ottobre, 2011

Von Trier e la scandalosa Apocalisse

"Melancholia" è il film al centro di questa stagione. E fa discutere. Tra chi attacca il regista danese e le sue sciagurate battute pro-Hitler e chi ne esalta l'estetica, la cultura e l'omaggio alla tradizione romantica tedesca

Forse "Melancholia" l'avrebbe vinta la Palma d'Oro 2011. Se solo il suo creatore Lars Von Trier fosse rimasto zitto, o magari indisposto, comunque lontano dalla platea di giornalisti e dalle conferenze stampa con cui ogni volta riesce a creare problemi al film. Fu così nel 2009 alla presentazione di "Anticristo" dove fece seguire un irritante mutismo a una ancora più irritante affermazione: "Io sono il più grande regista al mondo". Ma questa volta ha fatto di peggio e alla domanda di protocollo sulle radici germaniche del suo film, invece di rispondere perché Bosch o perché l'inglese preraffaelita Millais, invece di spiegare come mai un'opera sulle strutture primarie dell'immaginario tedesco, o magari inoltrarsi in pensieri sul romanticismo e sulla scelta di musicare il tutto con Wagner, il nostro ha gigionato a sproposito sul nazismo.

Non ha fatto ridere nessuno sentirlo dire che, dopo aver conosciuto Susanne Bier - collega e connazionale ebrea e molto premiata - Lars avrebbe capito che Hitler tutti i torti non li aveva avuti. Anche perché nessuno (o quasi) sapeva che la Bier non solo è sua cara amica ma è anche nella scuderia di Zentropa, casa di produzione del medesimo Lars. Con Hitler non si scherza e il festival, giustamente, prima ha preteso le scuse e poi lo ha espulso. Ma nonostante alcuni critici molto ideologici cercassero di rintracciare il nazismo in ogni inquadratura, "Melancholia" è rimasta in concorso e la giuria premiando Kristen Dunst ha dato il giusto risarcimento morale alla più bella, complessa e conturbante opera della Croisette. Che dall'11 novembre è arrivata sui nostri schermi e sta facendo discutere.

Un film seminale che esplicitamente cita un'immagine seminale: la "Melancholia" incisa a bulino da Dürer, metafora del potere di Saturno e dei suoi figli, creature geniali ma condannate al mal d'animo. Un'opera di appena 24 centimetri per 28, che da cinquecento anni fa impazzire gli iconologi alla ricerca di interpretazione certa.

Lars, che in cuor suo spera di emulare il maestro e far impazzire anche lui gli iconologi del Terzo millennio, non si è risparmiato in simboli e sottotesti ermetici e alchemici. A cominciare dalla costruzione delle inquadrature che nonostante il digitale sembrano incise a bulino, tanto nette sono le prospettive e fermi i contorni di cose e persone.

In questo scenario dipinto si muove la misteriosa danza dei pianeti, le lune si raddoppiano nel cielo, la morte arriva improvvisa uccidendo cavalli neri mentre piove cenere e quadri di Bruegel prendono fuoco da soli. Ma Lars non si ferma qui. Dall'omaggio a Dürer passa al furto di quasi tutti gli elementi: la casa sul lago; il poliedro - pietra filosofale che nel film diventa una mongolfiera; il "sol niger", qui un'eclisse, che in alchimia rappresenta lo stato inconscio della materia; il misterioso pianeta che in un tempo liquefatto porta dal cielo l'annientamento; mentre la figura alata, drappeggiata e imbronciata di Dürer qui si trasforma in sposa.

Ovvero Justine - Kirsten Dunst protagonista del capitolo primo e sorella bionda della bruna Claire - Charlotte Gainsbourg, protagonista del capitolo secondo. Un dittico giocato sugli opposti e tenuto insieme da un prologo che per immagini già racconta l'inevitabile conclusione. "È un disaster movie. Ho preso spunto dal "Titanic", un successo planetario anche se tutti sanno che alla fine la nave affonderà", disse Lars, dissacrante come sempre. Perché niente è più lontano da Hollywood, dagli effettoni speciali, dalle folle che urlano e scappano a destra e sinistra, dalle onde alte come un grattacielo di Manhattan. Qui tutto si svolge in quel "lusso-calma-voluttà" dell'alta borghesia del Nord.

Parte uno: il matrimonio di Justine. Melancholia è ancora lontana, solo una stella fissa nel cielo. Come in "Festen" (storico film Zentropa girato da Thomas Vinterberg in obbedienza totale al Dogma di Von Trier) la forma si scontra con la sostanza. Claire, sorella di Justine e padrona di casa, ha organizzato un matrimonio perfetto. I fiori sono giusti, l'argenteria brilla, le damigelle hanno il fiocco inamidato. Ma il padre della sposa (John Hurt) è ubriaco, la madre (Charlotte Rampling) sputa feroci e imbarazzanti verità, lo sposo (Alexander Skarsgard) è un utile idiota, il datore di lavoro (suo padre Stellan Skarsgard) un laido. E la sposa poi è già altrove, pronta a tradire, fuggire, perdersi nella luce malata del nuovo pianeta.

Parte due. Melancholia è vicina. Justine, malata e depressa, si affida alle cure di sua sorella. Nella casa oltre a loro due ci sono il figlioletto e il marito (Kiefer Sutherland) di Claire. L'Apocalisse incombe. Se la terra ha una chance di sopravvivere Claire ci vuole credere. Se la fine invece è inevitabile Claire vuole morire "comme il faut": "Quali saranno i bicchieri adatti all'ultimo brindisi?". Non è la fine del mondo. È la fine della borghesia occidentale votata a planetaria distruzione nell'indifferenza di pianeti che ciechi e ottusi nel loro movimento ci cancellano per mera legge fisica. Questa cosmica banalità del male amplificata dall'ouverture del "Tristano e Isotta", non arriva col furore e il clamore dei metalli. L'Armageddon del mondo contemporaneo si compirà nel silenzio e nell'esasperante indolenza di un astro di incomparabile bellezza.

Sotto la danza macabra fra potenze celesti, gli uomini non hanno riparo e come negli emblematci dipinti di Kaspar David Friedrich, la grandezza, la potenza, la meraviglia della natura non può che annientarli. "Ho voluto tuffarmi nell'abisso del romanticismo tedesco", ha detto Lars von Trier, seriamente questa volta. E nell'abisso saturnino di "Melancholia" trascinerà ogni spettatore, regalandogli il suo incubo più bello.

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