San Cataldo, Sicilia, 23 mila abitanti a un passo da Caltanissetta. Salvatore Mastrosimone è in casa, seduto al tavolo della sua sala, tra gli oggetti feticcio dell'Italia più tradizionale: la boccia d'acqua con il pesce rosso, il rosario pendente da una statuina della madonna, piatti di ceramica alle pareti e conchiglie in fila sulle mensole. Sorride con occhi tristi: "Ecco come mi hanno ridotto a 59 anni", dice.
Dopodiché, con la moglie Ersilia, gira per l'appartamento catalogando quello che c'era e non c'è più: "Hanno pignorato il possibile: la televisione, il divano, la poltrona. Siamo sommersi dalle lettere di Equitalia; potremmo usarle come tappezzeria, le richieste di denaro inviate dallo Stato". Ormai, continua, "abbiamo i conti correnti bloccati; non ci è rimasto un euro, per aiutare le nostre tre figlie". Anche fare la spesa è diventato un lusso, una scommessa. "E intanto i creditori ci inseguono senza tregua, senza pena per chi ha sbagliato e sta tentando di rimediare". Tutti, dice Mastrosimone, "rivorrebbero i loro soldi: ed è sacrosanto. Ma anch'io, adesso, avrei diritto di tornare a vivere: o meglio, di liberare la mia famiglia dall'inferno in cui l'ho cacciata".
Ha un nome che fa paura, l'infinito girone dantesco dove dal 1998 s'avvitano i Mastrosimone: si chiama usura. Tecnicamente, "un prestito concesso con il tasso d'interesse superiore al massimo indicato dal ministero del Tesoro ". In pratica, un pozzo nero dove s'ammassano ansia e solitudine, disperazione e impotenza. "Un tunnel suicida", taglia corto Mastrosimone. E tormentandosi le mani, grandi e ruvide da ex manovale poi diventato imprenditore, scorre gli ultimi dati dell'Associazione contribuenti italiani: "Nei primi sette mesi del 2011", legge, "il sovraindebitamento delle famiglie è salito del 201,4 per cento, rispetto allo stesso periodo del 2010". L'usura, intanto, è cresciuta del 134,7 per cento, con 2 milioni di piccoli imprenditori a rischio strozzini. L'altra faccia della crisi, quella che nessuno ha interesse a raccontare. "Avete visto cos'è successo l'altro giorno a Roma?", domanda Mastrosimone. Quindi mostra un articolo che parla di due imprenditori, sequestrati e seviziati per 50 mila euro di debito. "La sensazione, quando sei in pugno a gente del genere, è di non avere una via d'uscita, di dover pagare sempre e comunque", dice. "Finché il cappio stringe troppo il collo, e sei costretto a ribellarti per non soccombere". Così denunci tutto e tutti, con nomi e cognomi. Come ha fatto coraggiosamente lui: "Anche se in ritardo, dopo anni di dubbi e sottomissione".
Per la cronaca, San Cataldo non è quel che s'intende per una cittadina qualsiasi. Da queste parti, raccontano gli esperti di Cosa Nostra, "l'ombra della mafia è più lunga che altrove". A prescindere dalla volontà di Giuseppe Di Forti, attuale sindaco e docente di Economia. "Nel 2001, qui fu arrestato Giuseppe Palazzolo, consulente e prestanome del boss Bernardo Provenzano". Nel dicembre 2008, per una resa dei conti due killer hanno ucciso Salvatore Calì, "figlio di un capoclan locale e a sua volta arrestato per associazione mafiosa". E sempre a San Cataldo, nel novembre 2009, finisce in un'imboscata Stefano Mosca, parente dei Calì sopravvissuto per caso. "Insomma", sospira Mastrosimone, "il clima è quello che è". Eppure la sua storia parte serena, quasi entusiasmante per come la presenta lui: "La bella favola di un giovane che lavora, fatica, e afferra il benessere senza uscire dall'onestà".
Le origini di Salvatore sono semplici e dignitose: padre che trasporta farina, madre casalinga. "La classica famiglia in cui non mancava da mangiare ma era proibito lo spreco". A tavola, oltre ai genitori, siedono altri sei fratelli, ed è con loro che Mastrosimone imposta il futuro. "Nel 1973, tornato da militare, ho iniziato con un diploma di terza media in tasca ad affiancarli in cantiere". Lui e il fratello Michele sono bravi muratori, gli altri fanno esperienza sugli impianti elettrici e idrici . "Un gruppo che a fine anni Ottanta inaugura una ditta autonoma: "Portava il mio nome e cognome", ricorda fiero Mastrosimone.
Con simili premesse, sembra una vita in discesa. Gli appalti si moltiplicano, sempre più consistenti. "Una stagione dorata", a sentire Mastrosimone: "Palazzi costruiti uno via l'altro, armonia con i soci-fratelli, vita privata invidiabile". Salvatore, infatti, conosce fin da bambina Ersilia, da cui avrà Laura, Cristina e Claudia. Ed è a questo punto, allo scadere degli anni Novanta, che capita un imprevisto: un granello di sabbia in apparenza innocuo. "Al pianoterra di una palazzina appena finita, ci è rimasto invenduto uno spazio di 2 mila 500 metri quadrati con un valore commerciale attorno ai 3 milioni di euro: "E la nostra pessima decisione, per non finire in rosso, è stata costruirci dentro un supermercato, che abbiamo anche gestito".
Un autogol, ammette Mastrosimone; un misto di ingenuità e inesperienza. "Ci confrontavamo con aziende che ottenevano partite di prodotti a costi ridicoli, e guadagnavano spropositi". In altre parole, il settore è regolato da accordi sotterranei: "Un fronte invisibile che, con i nostri errori organizzativi, ci è stato fatale". Per questo, dopo le immaginabili discussioni con i fratelli, Mastrosimone cede loro le quote e torna a fare l'imprenditore edile: "Cioè quello che mi riusciva meglio, e in teoria avebbe dovuto rilanciarmi". Ma accade soltanto in una prima fase: "Dal boom del mattone, si era passati in pochi anni al business delle ristrutturazioni", spiega. Un mondo in cui scorrono fiumi di contanti, ma dove scivolare è facile: "Ristrutturavo, con dieci operai assunti in regola, e gli amministratori non pagavano". A volte, ricorda, scaricavano la colpa sulle liti tra padroni di casa, "che in effetti rallentavano i versamenti"; altre volte "contestavano la qualità dei miei lavori, più approssimativi da quando c'erano meno soldi". Tanto evidente è il suo affanno, che i fornitori ne approfittano per aumentargli i prezzi: "O così o niente". E anche le banche, "prima affettuose, hanno mostrato il volto feroce".
Succede, ad esempio, che il direttore di una filiale gli intimi di rientrare di 25 mila euro nel giro di una mattina. "Un altro direttore, negli stessi giorni, mi ha detto che non potevo più giocare all'imprenditore, che era arrivata la resa dei conti". Il punto, però, è che Mastrosimone non sa cosa inventarsi, per uscirne. Finite le collette dei parenti, esaurita la pazienza degli operai, l'unica strada passa da Salvatore Di Marco: "Un compaesano (classe 1942, ndr) che conoscevo di vista, ma che a San Cataldo dicevano potesse aiutarmi". Il primo incontro, per capire lo stile, è al circolo di anziani dove Di Marco è solito giocare a carte: "Gli ho esposto le mie urgenze, mi ha detto che avrebbe contattato certi amici suoi, e mi ha fissato un secondo appuntamento". Quello in cui, secondo gli investigatori, parte lo scambio di soldi: "Ho consegnato a Di Marco un assegno da 10 milioni di lire (5 mila euro), e me ne sono ritrovati nove in contanti". Di Marco, da parte sua, ne tiene "uno come interesse".
Tutto, ripete a se stesso Mastrosimone, si sistemerà al massimo in un mese. "Non capivo di essere sul ciglio di un burrone", dice l'imprenditore. "Infatti è questa, la falsa percezione che ha chi cade nell'usura", lo interrompe Salvo Campo, fondatore dell'associazione antiracket di Caltanissetta Rosario Livatino, e coordinatore siciliano della Rete per la legalità. "In effetti", conferma l'imprenditore, "ero certo di poter sistemare i fornitori, versare gli stipendi agli operai e ripartire in tranquillità". Anche perché, aggiunge, "se da un lato gli amministratori tardavano a pagare, dall'altro c'era parecchio lavoro in circolazione". Al punto che, per coordinare gli affari, Mastrosimone apre anche una cooperativa, la "Piccola società rinascita", in cui "mia figlia Laura era presidente, io il vice, e i miei suoceri e mio fratello gli altri soci".
Dovrebbe essere la mossa vincente, nelle intenzioni di Mastrosimone; una soluzione, insomma, per infilare i suoi cari nel settore. Ma l'entusiasmo non dura: "Con il passare del tempo, i mancati pagamenti sono aumentati, e così pure è cresciuta la mia confusione". Un'insicurezza che in più occasioni lo spinge a richiedere soldi a Di Marco: prima "8 milioni di lire (4 mila euro) in cambio di un assegno da 10", poi "16 milioni (8 mila euro) per un assegno da 20". E poi ancora, mese dopo mese, migliaia e migliaia di euro che transitano da Di Marco a Mastrosimone, con un tasso d'interesse medio annuo che i magistrati quantificheranno tra il 1998 e la fine 2001 nel "160,23 per cento". Sempre con l'illusione, riferisce l'imprenditore, "di potersi riprendere; sempre con l'ossessione di spillare soldi ovunque e a chiunque".
Tra l'altro, in quei giorni a San Cataldo si sparge voce che Mastrosimone sia in ginocchio per debiti, il che lo emargina dalla maggior parte dei lavori. "Per non parlare di cosa avveniva a casa", scuote la testa: "Ersilia e le ragazze avevano ormai inquadrato il disastro, e ne soffrivano le conseguenze". Le due figlie grandi, per l'appunto, abbandonano l'università e si mettono a lavorare: Laura come barista, Cristina commessa. E anche la signora Mastrosimone, in quelle ore, ha i suoi pensieri: "Mi sono ritrovata, con la morte in cuore, a razionarci il cibo". Più in generale, dice, "valutavo le spese previste, e approvavo giusto quelle inevitabili". Ma il peggio, avverte, "doveva ancora travolgerci".
La discesa è verticale. Di Marco, adesso, non usa più con Mastrosimone i modi cortesi dei primi tempi: quando non vede arrivare i soldi, esplode. "Un pomeriggio mi ha strappato le chiavi dal camion", racconta l'imprenditore, "spiegando che le avrei riavute a denaro ricevuto". Un'altra volta, a maggio del 2001, lo stesso camion viene incendiato (non si è scoperto da chi, ndr) davanti a casa Mastrosimone, e Di Marco il giorno dopo "s'è divertito a sfottermi, chiedendomi cosa gli fosse capitato". Dopodiché passano settimane, mesi, e la pressione sale: "La notte", ricorda la signora Ersilia, "il telefono suonava in continuazione: correvamo a rispondere e non parlava nessuno. Poi il telefono squillava ancora: una volta, cinque, dieci. Pura follia, tant'è che abbiamo dovuto staccare la linea".
Le mattine seguenti i coniugi Mastrosimone, stravolti, si ritrovano ovviamente con gli stessi guai di prima. "Mastrosimone", precisa ancora Salvo Campo, "era a un millimetro dal capolinea". "Non sapevo neanche più quante migliaia di euro dovessi a Di Marco", conferma lui. Pensa solo a recuperare soldi e correre a consegnarli. Ma è energia sprecata: "Di Marco, più deciso che mai, voleva gli cedessi qualsiasi cosa, persino la casa dove abitavamo e ancora oggi abitiamo, che per fortuna non è intestata a me". Ma Di Marco non ci crede, che l'appartamento non sia di proprietà. E insiste: "Mi ricordava che era parente di una persona con precedenti per associazione mafiosa", dice Mastrosimone. Gli riferisce che i suoi soldi servono a mantenere gente in carcere, "che anche se fossi fallito mi avrebbe fatto saldare il conto".
Logico che Mastrosimone, con un tale trattamento, si riduca come desiderano gli usurai: a pezzi. Un imprenditore che può fare di tutto, per disperazione. Anche se, di tanto in tanto, gli resta qualche traccia di lucidità: "Provavo a convincere Di Marco che non gli conveniva, quel gioco al massacro. "Cosa potrò darti", dicevo, "quando mi avrai distrutto del tutto?". Ma lui non ascoltava. Non capiva che ero al limite: mi calpestava, mi faceva sentire uno schifo". Fino a quando Di Marco arriva a mettere in difficoltà la figlia maggiore di Mastrosimone, Laura, "protestando alla sua cooperativa un assegno" firmato per sostenere il padre (poi girato a una parente del Di Marco stesso). Ed è qui che, all'improvviso, con una secca sterzata che ancora oggi stupisce Mastrosimone, la sua schiavitù da usura finisce: per sempre, da un momento all'altro.
"Indignato dal progressivo scempio dei miei affetti", dice l'imprenditore, "ho giurato che mai più, qualunque cosa fosse successa, avrei pagato un euro a Di Marco; e soprattutto, mai avrei accettato che si mettesse in discussione la tranquillità delle mie figlie". Dopodiché, con la moglie, si presenta alla polizia e denuncia chi gli ha devastato la vita "come un virus, un cancro".
È il 16 luglio 2002, quando Mastrosimone incontra gli agenti della squadra mobile di Caltanissetta. "Da lì in avanti", ricorda, "abbiamo affrontato nove anni di amarezze, con una parte dei paesani che contestavano la mia denuncia e mi davano del giuda, di quello che non aveva tenuto la bocca chiusa". E poi c'è il pericolo della depressione, che sfiora Mastrosimone, e l'impossibilità di aprire una nuova ditta per "l'esposizione con le banche di 300 mila euro", nonostante il contributo del Fondo nazionale antiusura. "L'unica buona notizia, anzi ottima, è che a maggio 2011 Di Marco è stato condannato in primo grado a tre anni di carcere per estorsione e usura". E con lui, ha avuto un anno e otto mesi anche Isidoro Maira, "il commercialista che custodiva i nostri assegni". Ma non basta, questa svolta, a restituire un sorriso a Mastrosimone: il suo pessimismo cronico, contro il quale ha lottato con uno psicologo, prevale comunque: "Non solo per quanto riguarda me, Ersilia e le figlie, ma anche il mio anziano suocero: un uomo che ci ha fatto da scudo con le sue risorse, e si ritrova affogato nei debiti". Un disastro, dice, "che non riesco a perdonarmi...". E solo qui, su questa frase a mezza voce, gli sfugge una lacrima. Un attimo di sconforto che scaccia alzandosi da tavola: "L'importante", cambia discorso, "è che conoscere la mia vicenda spinga altre vittime di usura a denunciare i loro strozzini". Il pensiero, dice, lo fa sentire più forte.