Soffrire con "Anna Karenina". Viaggiare con "Moby Dick". E passare il tempo coi migliori romanzi dell'Ottocento. Riuniti in una collana per l'Espresso

Amo la letteratura perché mi aiuta a vivere. Parole di Tzvetan Todorov, uno degli intellettuali più influenti di questi decenni. "Raccontiamo le nostre storie per poter vivere", gli fa eco, quasi con la stessa identica frase, Joan Didion, americana di grande successo. "Nei miei libri vorrei riscrivere l'Universo", ama ripetere la giovane autrice di culto Nicole Krauss. E un Midrash (un'antica storia ebraica) recita: "Perché Dio creò Adamo? Per avere a fianco qualcuno che gli raccontasse storie". Anche per Walter Benjamin, "in ogni immagine", e quindi in ogni racconto, "c'è un che di eterno". Narrare è la più umana delle attività: perché ci mette in contatto immediato con gli altri (coloro che ascoltano e leggono); perché permette di sognare e immaginarsi un altro mondo e un'altra vita; perché rende possibile l'esercizio di empatia, l'immedesimarsi nei panni altrui; perché ci avvicina alla dimensione della trascendenza; e infine perché i libri che leggiamo - se sono belli - ci divertono.

Ha quindi una funzione salvifica la letteratura? Probabilmente sì. Ma non è solo per questo che leggiamo i libri, e prima di tutto i romanzi. Invenzione del mondo borghese, il romanzo: la tesi è di Zygmunt Bauman, meglio di ogni indagine sociologica, statistica, e in una maniera più efficace di ogni cronaca giornalistica, racconta lo spirito e la realtà della vita e della società. O almeno con questo intento nasce il romanzo realistico (qualcuno lo chiama "borghese", appunto): quei volumi che ci fanno compagnia fin dall'infanzia e che raccontano dell'amore struggente e del cinico tradimento; del coraggio estremo e della viltà senza vergogna; dell'avarizia mesta e dell'estrema generosità; degli eroi prigionieri delle proprie ossessioni; dei criminali che dopo aver frequentato il Male sono capaci di sincero pentimento perché scoprono Dio; e infine di uomini e più spesso donne, ostaggi di costumi cui cercano di ribellarsi (con conseguenze disastrose).
Quindici di questi classici, risalenti all'Ottocento (epoca d'oro del genere) sono proposti dall'"Espresso" nella collana "I Grandi Romanzi".

Si parte con "Anna Karenina". Il libro nasce come un romanzo d'appendice, pubblicato da Lev Tolstoj a partire dal 1875 sulla rivista "Russkij Vestnik" (Il Messaggero russo), e viene subito stroncato dalla critica. La colpa dell'autore? Aver raccontato una storiella frivola di ceti alti. Oggi sappiamo (ma lo sapeva già il contemporaneo e rivale Dostoevskij) che "Anna Karenina" è un testo che racchiude in sé tutte le narrazioni scritte e ipotizzabili. Non a caso si tratta di un'opera che ha avuto numerosissimi adattamenti cinematografici, teatrali, televisivi. E infatti in quel libro c'è prima di tutto la storia d'amore di una donna infelice in una società che non tollera trasgressioni femminili. E vi si narra l'inutilità del maschio (il conte Vronskij, a pensarci bene, è un essere umano superfluo) mentre Karenin nulla può fare nonostante la sua apparente, disperata bontà. O forse "Anna Karenina" è un libro che continua ad affascinare i lettori, per via del suo eroe positivo Levin (secondo alcuni, un riferimento autobiografico dell'autore): un uomo probo e virtuoso. In fondo, "Anna Karenina" è semplicemente un romanzo che ha come soggetto la ricerca della felicità in una società che comincia ad essere moderna: non a caso lo strumento della morte è un treno.

Di una certa modernità narra pure il secondo libro della collana: "La Certosa di Parma", composto da Stendhal nel 1838. Trama avventurosa - tra amori, tradimenti, brama del potere, sullo sfondo di un'Italia post-Napoleone. La scena in cui il protagonista Fabrizio del Dongo assiste alla battaglia di Waterloo, percependo solo i singoli episodi, senza accorgersi di essere testimone di un evento che cambia la storia del mondo, è oggi un esempio della differenza tra la realtà vera e quella vissuta in prima persona. Di come non si potesse credere "nemmeno ai propri occhi", cosa che avremmo appreso compiutamente solo con le tragedie e con le manipolazioni di massa del Ventesimo secolo. E certamente non è un caso se una scrittrice ed eroina della Resistenza francese, Charlotte Delbo, ha raccontato come in una prigione nazista aveva potuto trovare forza grazie alla lettura proprio de "La Certosa di Parma" (un po' come i versi di Dante hanno dato coraggio a Primo Levi ad Auschwitz).

Anticipava il Ventesimo secolo Fedor Dostevskij, il cui "Delitto e castigo", insieme a tanti altri capolavori (vedi riquadro a pagina 123) fa parte della collana dell'"Espresso". È un libro che non solo racconta il timore dell'assoluto, ma dove è fondamentale l'indagine psicologica, per cui la narrazione dello stringente bisogno del pentimento (anche laico) è tuttora insuperabile. O, per dirla con Saul Bellow, non solo un grande scrittore ma prima di tutto un grandissimo lettore: "I russi hanno un fascino carismatico immediato".

Lo hanno sicuramente anche gli americani, e basti pensare a quella bellissima metafora della lotta contro il Male che è "Moby Dick" di Hermann Melville. Ma poi, rimane il piacere dell'evasione. Per dirla con Philip Roth: "I migliori lettori arrivano ai romanzi per essere liberi dalla noia a da tutto ciò che non è romanzo".

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