Candidato come miglior documentario, il reportage di National Geographic Channel racconta per immagini un anno di vita di un plotone dell'esercito Usa nel posto più pericoloso dell'Afghanistan. Intervista a uno degli autori, Sebastian Junger

La paura sa di ammoniaca, a Restrepo. Succede quando la fatica ha bruciato ogni traccia di grasso dal corpo dei soldati, e l'organismo comincia a consumare i muscoli. Allora il sudore prende quell'odore. Restrepo è molte cose. Era il nome di un medico-soldato americano ucciso in azione in Afghanistan. È diventato, in suo onore, il nome di un avamposto di 15 uomini nella remota Korengal Valley. Ma è anche il nome del documentario, girato da Sebastian Junger e Tim Hetherington, che racconta un anno di vita di quel plotone dell'esercito Usa nel posto più pericoloso dell'Afghanistan, vicino al confine col Pakistan.

Junger, reporter e scrittore famoso anche come autore de "La tempesta perfetta", ha passato mesi con loro, condividendo fatica, pericolo, paura ed euforia, perché la guerra è tutto questo. "Restrepo", questa notte, potrebbe vincere l'Oscar come miglior documentario. L'Espresso ha intervistato Sebastian Junger.

Come è nato il progetto Restrepo?

«Sono andato in Afghanistan per la prima volta nel 1996, e ci sono tornato molte volte. Nel 2005 ci sono andato con l'esercito americano, e ho pensato che avrei voluto seguire quel plotone nella missione successiva, per farci un libro e un documentario».

Lei è l'autore de "La Tempesta Perfetta". Questa è la "guerra perfetta"?

«Nel senso di tante cose che convergono per creare un disastro, sì. È la mancanza di volontà da parte dell'Occidente che la rende impossibile da vincere: se l'Occidente avesse impiegato contro i talebani la stessa energia e intelligenza, gli stessi mezzi e forza che ha usato contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale, sarebbero già stati sconfitti. Le cose vanno comunque meglio: rispetto al caos degli anni '90, quando morirono 400 mila civili afgani nella guerra civile, le cifre oggi sono migliori. Da quando la Nato è intervenuta, nel 2001, il numero di civili morti è sceso a 16mila, e questo è un risultato. Di cui l'opinione pubblica internazionale non è perfettamente consapevole: ma il fatto è che -per esempio negli Usa- alla destra non frega proprio nulla degli afgani, e la sinistra è talmente contraria alla guerra che sottovaluta l'impatto drammatico sulla popolazione che avrebbe il nostro ritiro da lì. Non solo: il governo americano, che guida di fatto questa guerra, da anni finge di ignorare la corruzione del regime che ha insediato e continua a sostenere».

Che reazioni ha provocato negli Stati Uniti "Restrepo"?

«Noi non volevamo fare un film politico, ma di fatto a destra adorano il film, lo vedono come un rendere onore alle truppe. In parte è vero, anche se la nostra idea era semplicemente di mostrare la vita di questi soldati. A sinistra lo vedono come un film contro la guerra, perché mostra le cose dolorose e terribili che provoca. Così, stranamente, Restrepo è un documentario che piace a progressisti e a conservatori: entrambi credono che rappresenti il loro punto di vista».

Un bellissimo film di Paul Haggis, "Nella Valle di Elah", mostra come la guerra renda disumani gli uomini. Restrepo, al contrario, mostra l'umanità dei soldati. Come la guerra possa creare tra loro legami profondi e assoluti.

«Ci sono tanti luoghi comuni sulla guerra. Uno è che sia una cosa talmente orribile che non può che avere effetti orribili sugli esseri umani. Ma allora perché ai soldati, dopo, la guerra manca? Perché gli manca l'esperienza peggiore della loro vita? La risposta è che la guerra non è l'esperienza peggiore della loro vita. Ci deve essere qualcosa nella guerra: qualcosa che nutre gli uomini, che li conforta. Per i civili è esclusivamente negativa, ma questo è un pensare per assoluti. In guerra non esistono. La guerra è complicata. Come il matrimonio: puoi avere un matrimonio tremendo e decidere di divorziare, e tuttavia rimpiangerne qualcosa. Quello che i soldati hanno, in guerra, è un legame profondissimo tra loro. Un rapporto umano che probabilmente non proveranno mai più, se non quando avranno dei figli. È successo anche a me. Per me fare questo film e scrivere il libro "War" è stata un'esperienza emotiva estrema».

E la paura? Come si fa a conviverci?

«Condividendo tutto con loro, ho vissuto le loro stesse emozioni, sono diventato un insider della paura. In altre esperienze da reporter, per esempio in Liberia, mi sono ritrovato solo nel caos più totale: quello sì che è terrificante. Ma se fai parte di un gruppo, senti che quello che succederà al gruppo succederà a te. Che si sopravviverà o si morirà tutti insieme: una sensazione incredibilmente rassicurante. Far così parte di un gruppo, essere così legato per la vita ad altre 30, 40 persone, ci riporta, credo, al nostro passato evolutivo, a strutture antiche del nostro cervello, a cose che nella società contemporanea non ti accadono mai. A come ci siamo evoluti come specie: piccoli gruppi sempre in pericolo in un ambiente ostile».

Questo è anche un film sulla "You tube generation" all'impatto con la guerra.

«All'inizio non sanno nemmeno bene dove stanno andando, Nelle prime scene del film canticchiano "Andiamo in guerra, andiamo in guerra", come se fosse un gioco, un videogame. Poi, nei mesi, cambiano. I ragazzi vanno sempre in guerra senza capire. Per esempio che la guerra può uccidere. Non tanto te: la cosa tremenda è che ti può uccidere un amico. Quando partono, i ragazzi non lo sanno mai, perché non è normale conoscere la morte a quell'età. È a 30, 40 anni che diventa normale: muoiono i genitori, un amico si ammala di cancro, la morte diventa familiare, anche la tua diventa una possibilità. Ma a 20 non c'è ragione di pensarsi mortale. Infatti uno dei ragazzi nelle scene iniziali dice, "Noi non siamo pronti per questo"».

Si torna mai dalla guerra?

«Alcuni. Altri no. In quel plotone c'era tutta la gamma di possibilità: ragazzi che alle spalle avevano famiglie che li sostenevano, altri con famiglie sfasciate e violente. Sono questi ad avere più problemi a riabituarsi alla vita civile. Perché in guerra in un certo senso tutto ha un senso, le regole sono arbitrarie ma semplici e chiare: se fai cose pericolose rischi di morire, se sei un buon soldato, un buon guerriero, hai maggiori possibilità di sopravvivere. E se sei un buon soldato sei rispettato. Hai tutto sotto controllo. Invece quando torni alla vita normale contano altre cose, per esempio che aspetto hai, o se sei ricco o hai ricevuto una buona educazione. Cose su cui non hai controllo, però il modo in cui gli altri ti guardano dipende da questo. In guerra il controllo è nelle tue mani, sei tu a determinare il giudizio degli altri. Per un ragazzo che viene da una famiglia difficile, trovarsi in un ambiente in cui può controllare il modo in cui gli altri lo percepiranno è una cosa bellissima. È per questo che hanno paura di tornare, che gli manca l'Afghanistan. Che, dopo, gli manca la guerra».

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