Gli errori politici. E quelli nel look. Lo sdoganamento. La rapidità nel cambiare opinione. I rapporti con Berlusconi. Ritratto al vetriolo del presidente della Camera Fini

Il brano che segue è tratto da "Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica", il libro scritto dopo le elezioni del 2008 è ora riproposto da Mondadori nel nuovo volume che va in libreria.

O magari ci si butta a sinistra perché proprio non si sopporta Gianfranco Fini. Ovvero non si trova tollerabile il suo abbigliamento, i suoi gesti, le sue sigarettine, la sua acconciatura, la sua abbronzatura, il suo pensiero politico. Conta relativamente poco che Fini fosse un fascista, e anzi un fascista che voleva proiettare il fascismo nel terzo millennio, giurando e spergiurando che i valori del fascio sono eterni (salvo poi rimangiarsi tutto dopo un po', per non far sfigurare Berlusconi sul piano internazionale).

Ma per capire, all'incirca, com'è Fini basta guardare anzitutto come si veste. Per anni «l'uomo in Lebole», come lo chiamavano i suoi camerati, ha portato un impermeabile che sembrava quello indossato dal tenente Sheridan, e non appena scendevano i primi freddi lo sostituiva con un tremendo giaccone giallo di montone rovesciato. Un braccialetto al polso, poi fortunatamente dimenticato in un cassetto. Ogni tanto sfoggiava un'abbronzatura di quelle che si doveva essere rotto il timer della lampada e al centro fitness l'avevano lasciato sotto i raggi uva dieci minuti di troppo.

In realtà, Fini non è un uomo politico: assomiglia piuttosto a un talento pokeristico. Berlusconi, quando lo sdogana, sa di prendersi in casa un politico senza scarti, filosofo e parolaio puro, che ha fatto della duttilità più estrema la sua cifra assoluta. In questo senso, Fini può sostenere praticamente tutto: è patriottico, liberale, gollista, mussoliniano prima e antimussoliniano poi, cattolico e papista dichiarato, ma favorevole alla fecondazione assistita. Da giovane, quando poteva dire la verità, al camerata Biagio Cacciola, capo degli universitari di destra, che gli aveva chiesto «Tu credi in Dio?» aveva confessato a bocca storta: «La religione per me è come il pallone: non me ne frega nulla». Ma con il passare del tempo, diventa il rappresentante semiufficiale del conformismo cattolicizzante.

Ha la capacità fenomenale di sbagliare tutte le scelte politiche e di uscirne miracolosamente indenne, anzi quasi vincitore: infatti, l'attuale presidente della Camera è stato proporzionalista contro i referendum elettorali di Segni, per trasformarsi allegramente, più tardi, in un fondamentalista del sistema maggioritario.

Erede di una tradizione antieuropeista, si è iscritto volonterosamente fra i costruttori della nuova Costituzione europea. Al richiamo alla «libertà», categoria astratta, empito spirituale, ha sempre aggiunto una naturale inclinazione al "law and order". L'affabilità da piccolo schermo, il gusto del buon senso apparente che convince le zie non gli hanno impedito la faccia truce verso la diversità impersonata dal «maestro gay dichiarato», e l'apertura sul voto amministrativo agli immigrati non lo ha distolto da una legge proibizionista sulla droga.

Nel suo partito quasi tutti lo ammirano e molti lo odiano. Qualche decennio fa si diceva che nella sua carriera di destra le uniche botte Fini le avesse prese dai suoi. Qualcuno di recente ha protestato: «Non siamo un partito di trogloditi guidati da un genio». Dirige una formazione politica i cui elettori sono madame dell'aristocrazia nera, coatti delle borgate, reduci di Salò, marescialli sostenitori della legge e dell'ordine, e battutisti irresponsabilmente feroci come il suo ex capo ufficio stampa Salvatore Sottile che, quando uscirono dalla visita ad Auschwitz, commentò con aria compunta: «Eh sì, anche Gianfranco ha avuto un parente morto ad Auschwitz...». Come?, si sorpresero i cronisti. «Sì, stava sulla torretta.»

Ma se c'è qualcosa che a sinistra non hanno mai perdonato a Fini è che lo sdoganamento è stato troppo facile. I fascisti sono diventati postfascisti troppo alla svelta, con il lavacro di Fiuggi, e poi afascisti e addirittura antifascisti senza pagare dazio. Fini è passato dalla fase «Mussolini massimo statista del secol » al «fascismo male assoluto» senza dover affrontare scissioni tranne quella di Francesco Storace, il destro sulfureo e muscolare, quello che «il cazzotto sottolinea l'idea» e che è rimasto immortalato nel celebre couplet: «A Storà, dicce qualcosa de destra». «A froci...!»

Avessero dovuto superare, i missini, tutti gli esami che furono richiesti ai comunisti, Fini sarebbe ancora nell'anticamera della Camera. E allora, quando quelli di sinistra vedono i fascistoni, non si sa quanto ex, che, belli soddisfatti, impartiscono lezioni di democrazia più o meno a tutti, e quando vedono Gianni Alemanno, quello che ripete spesso «destra identitaria» e «fascismo, fenomeno complesso», scalare il Campidoglio, vengono colti da un senso di giustizia vulnerata, e un po' s'incazzano ancora.