Non vi racconterò dove James Joyce ha scritto la prima parte dell'"Ulisse", né dove s'incontrava col suo amico Italo Svevo per scambiare quattro chiacchiere (in triestino) e ridere insieme dell'ultima barzelletta. Non vi mostrerò la libreria antiquaria di Umberto Saba né l'itinerario delle sue passeggiate, il viale dove anche oggi come ieri "indifferente gioventù s'allaccia/ sbanda a povere mete". Non vi indicherò neanche in quale salone del castello una Sissi anoressica, fissata con il corpo, di fatto sempre in anticipo sui tempi, aveva fatto installare gli anelli ginnici per tenersi in forma. Non lo farò perché ormai, con l'avvento del turismo culturale, queste cose sono scritte anche nell'ultima guida acquistabile dal giornalaio. Vi porterò invece a un secondo livello, sotto il biglietto da visita della città, dove salta agli occhi con più forza il nucleo eccentrico e ferito e ancora, nonostante tutto, vitalissimo di Trieste.
Di prima mattina, prendendo in contropiede la canicola, visitiamo subito la Risiera di San Sabba. Unico forno crematorio nazista in territorio italiano, ristrutturato con cura e non comune sensibilità da Romano Boico nel 1975, la Risiera è uno splendido monumento al dolore. Nato come campo di prigionia per partigiani e dissidenti politici (ma, ovviamente, anche di ebrei), raccolse nelle stesse camerate italiani e sloveni, giovani che combatterono insieme contro l'italianizzazione dell'entroterra imposta da Mussolini e insieme furono bruciati - prima delle foibe, prima della guerra fredda, prima di una lunga stagione di odio spentasi sul finire degli anni Ottanta ma che rilascia ancora le sue tossine nella faticosa ripresa della città.
Bisogna passare per la sala delle croci, la cella della morte, leggere le scritte sui muri, bisogna guardare una a una le fotografie per capire da quale cerchio di fuoco è uscita la Trieste moderna. Il forno fu distrutto dai nazisti in fuga, ma il lastrone di acciaio che ne sagoma la pianta a terra ha una forza evocativa se possibile ancora maggiore. Con la ristrutturazione, attorno agli edifici rimasti venne eretto un muro di cemento alto una decina di metri che enuclea il campo come un bozzolo di verità e al tempo stesso lo tiene protetto dal procedere distratto della vita del mondo esterno - appena fuori, un arredo bagni, uno scalcagnato lunapark, il parcheggio di un hard-discount, il clangore torvo della periferia industriale. Per i triestini questa è la classica escursione di terza media, coeva alla lettura di qualche brano di Anna Frank e Primo Levi, ma la Risiera andrebbe rivisitata più tardi, e poi, da adulti, assiduamente, come si fa coi parenti al cimitero, una cosa che in fondo rinfranca e fa andare in pizzeria più volentieri.
Spostiamoci ora a nord, nel rione di San Giovanni. Una cancellata ci introduce in quello che fu il vecchio manicomio della città: un'ampia oasi di verde nella quale emergono i padiglioni di fine Ottocento, un tempo suddivisi per "tranquilli", "semi agitati", "agitati", ora trasformati in asili nido, istituti universitari, cooperative sociali, presidi sanitari del quartiere. È qui che Franco Basaglia si trasferì con la sua équipe da Gorizia per dare avvio a quell'eccezionale esperimento di cura delle persone malate di mente che raggiungerà il suo compimento nella legge 180 e la riforma sanitaria del 1978. È bello aggirarsi a curiosare tra queste vecchie costruzioni nascoste tra i platani. L'unicità, o forse meglio, l'anomalia di Trieste emerge anche da qui.
Negli spazi ora occupati dal Dipartimento di Salute Mentale, ad esempio, si realizzò quella prima esperienza di autocoscienza chiamata Marco Cavallo, di cui la bella scultura equina sul patio è testimone. Il poeta Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia, insigne scultore cugino dello psichiatra, condussero un laboratorio nel quale i pazienti vennero sollecitati a interrogarsi sulla propria condizione di soggetti privi di diritti e diedero vita alla statua di cartapesta azzurra che guidò il primo corteo spontaneo fuori dalle mura dell'ospedale - gesto rivoluzionario di grande valore simbolico che sancì l'inizio della fine dei manicomi in Italia.
Marco Cavallo era il ronzino che tirava il carro della biancheria sporca e che i pazienti vedevano sfilare ogni mattina fuori dalle loro finestre. Uno schiavo, un recluso, la cui copia scultorea poté andarsene libera tra la gente per le vie della città. Alla fine della passeggiata possiamo fermarci a fare uno spuntino nel bar tavola calda Il posto delle fragole, gestito dall'omonima cooperativa, la prima in Italia ad essersi avvalsa di lavoratori ex degenti. Il locale è frequentato da impiegati in pausa pranzo, studenti della vicina università e pazienti seguiti dal dipartimento. Basta sedersi a un tavolo e ascoltare le chiacchiere e il consueto tramestio, per accorgersi che la città si è riappropriata nel modo più sano, senza pietismi e integrazioni forzate, di quello che fino a vent'anni fa era un parco che metteva ancora paura.
Nel pomeriggio ci trasferiamo sotto le fronde ombrose del ricreatorio Pietro Lucchini. Scegliamo questo per pura e semplice partigianeria: i ricreatori sono un po' come le contrade di Siena e io è qui che sono cresciuto. I campi di pallacanestro e pallavolo sono ancora arroventati dal sole, sicché i maestri trattengono i bambini sotto gli alberi con i giochi da tavolo o a fare i compiti per le vacanze. In un'epoca di "punti verdi" a pagamento o, in alternativa, centri estivi iperconfessionali, non può non colpire la presenza di un'istituzione municipale, laica, gratuita, che vigila sull'infanzia dodici mesi all'anno e la educa attraverso l'impiego di maestri elementari regolarmente selezionati dalle graduatorie del provveditorato. Il ricreatorio non è un oratorio: ci sono un sacco di corsi - musica, recitazione, canto - ma non c'è un'aula di catechismo. Distribuiti uniformemente nei rioni della città, questi "dopo scuola" costituiscono il vessillo più evidente dell'impostazione culturale lasciata in eredità dagli Asburgo (fino al 1918 Trieste è stata il porto principale dell'Impero austro-ungarico). L'istruzione e la ricreazione di stampo teresiano erano ben scevre da influssi religiosi, nonostante l'Austria fosse cattolicissima. Il divertimento intelligente, il dopo scuola, l'educazione alle arti dovevano restare esclusiva responsabilità delle istituzioni pubbliche. I ricreatori sono utili per cogliere lo spirito di chi vive in città visto che buona parte dei triestini ha compiuto in questi posti un pezzo importante del proprio apprendistato alla vita. Un'educazione trasmessa per generazioni e generazioni al di fuori di qualsiasi influenza ecclesiastica ha favorito l'emergere di una mentalità libera da pregiudizi, sempre pronta ad amare la vita senza inibizioni e falsi pudori. Adesso che il sole è più basso facciamoci una partitella di basket coi ragazzi più grandi, poi scenderemo sul lungomare di Barcola per un bel bagno serale e capirete subito di cosa sto parlando.
La disinvoltura di Trieste la si vede qui, lungo questi tre chilometri di passeggiata trasformata in spiaggia. Da qualche anno è stata innalzata una siepe di oleandro per proteggere lo sguardo degli automobilisti dalle ragazze in topless (e non viceversa), non si contavano i tamponamenti. A Barcola l'accesso al mare è facile e gratuito, l'acqua - di scoglio - è limpida, la frequentazione a dir poco assortita. Nella minuscola pineta che s'incontra per prima venendo dal centro ci sono le famiglie coi tavolini da pic-nic, ai Topolini (stabilimenti comunali) ci sono gli adolescenti, verso il bivio con la strada costiera i giovani leoni e le leonesse della fascia più "smart". Facciamoci un bagno e poi ci asciughiamo prendendo uno spritz - a Trieste solo selz e vino bianco - a uno qualsiasi dei mille chioschi che punteggiano il lungomare. Ecco ciò che resta sempre fuori dal cliché: l'aria levantina, calda, mercuriale di questa città. La sua secolare consuetudine ai commerci ammorbidisce i profili netti dei suoi palazzi e forse del suo carattere. I triestini vengono qui tutti i mesi dell'anno, non solo d'estate. Ci vengono a pescare, a pattinare, a portare il cane, a mangiarsi un panino, ci vengono a studiare d'inverno, a contemplare le onde imbacuccati negli angoli sottovento degli stabilimenti, ci vengono per lasciarsi e ci vengono per mettersi insieme. Ci vengono anche senza venirci, perché il mare a Trieste è un lato della stanza, ti alzi al mattino e sai dov'è, stai dove stai e sai che c'è. L'anomalia triestina è anche questo: un cervello freddo e un cuore caldo. Dopo il secondo spritz e il sole che muore piano dietro il Castello di Miramare, anche voi finirete per vederla con gli stessi occhi con cui la vedevano da Vienna: una città meridionale, la città più meridionale dell'Europa del nord.