Sospetti e giochi di potere, la Procura nell'occhio del ciclone

I consiglieri regionali andavano a braccetto con i boss alla luce del sole, i sindaci accontentavano le richieste dei clan, gli avvocati non guardavano alla deontologia ma a favorire in tutti i modi i clienti mafiosi, persino gli investigatori o i cancellieri del tribunale passavano informazioni al "nemico". Sembra una storia di fantasia. Ma non è così. I protagonisti sono reali come purtroppo reali sono anche i fatti che in tre anni la procura di Reggio Calabria ha ricostruito in decine di indagini, portando in carcere centinaia di persone e facendo già condannare molte di loro.

Ma quando dopo avere colpito gli uomini di mafia il procuratore Pignatone ha cominciato a mettere le mani nella zona grigia che gestisce ancora oggi trasversalmente il potere a Reggio, allora il magistrato è passato dal mirino della 'ndrangheta, a quello dei veleni che i "colletti bianchi" stanno spargendo.

Dal carcere un capitano dei carabinieri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ha inviato una lettera ai pm di Santa Maria Capua Vetere in cui accusa due agenti di averlo avvicinato in cella, per un regolare colloquio investigativo. Una procedura perfettamente legale. Ma l'ufficiale detenuto chiama in causa Pignatone e i due investigatori sostenendo di avere ricevuto pressioni per accusare Alberto Cisterna, numero due della Superprocura nazionale sotto inchiesta a a Reggio per i rapporti con un boss. La vicenda è finita sui giornali locali e da allora è un turbinio di dossier contro la procura reggina, e poi ancora dichiarazioni e interviste: il clima perfetto per ostacolare l'attività di chi cerca di scardinare il patto tra cosche e referenti borghesi.

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