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Cultura
settembre, 2011

'Così sono diventato Scamarcio'

Spavaldo, provocatorio, ribelle. Deciso a non tradire se stesso. Voleva fare l'attore. E alla fine il set è diventato la sua casa. 'Non penso di dover dimostrare di essere bravo. Sono abitato dall'anima di Carmelo Bene. E mi basta così'

Si può stare sopra il cielo anche in due metri per due. La roulotte genovese di Riccardo Scamarcio - "Ma lo chiami tri-camper, altrimenti poi la gente chissà cosa pensa" - è l'ultima stazione della precarietà. Un frigo nell'angolo, un cestino sul lavandino (dentro, plastificati a tutti gli effetti, risotti smunti, prosciutti liofilizzati e merendine), un pacchetto di bionde da cowboy pugliese e fuori, tra i container del porto, con la "macaia" che acceca, fa sudare, ferma l'aria e confonde i profili, la febbre di un set di coetanei con gli auricolari alle orecchie, gli ordini metallici e i tempi  stretti: "Riccardo ti aspettano sopra per la prova, la maglietta è quella gialla, abbiamo cinque minuti". Da dieci anni, la clessidra di questo ragazzo di 31 anni che veste scarpe di tela, jeans che hanno visto giorni migliori e magliette bordeaux da comune studentesca è rivolta al domani. Gira un film, ne lancia un altro, legge un copione, accetta un incarico, rifiuta una parte. Certe volte eccelle, ogni tanto litiga. Talvolta sbaglia. Quasi sempre ricomincia. Certi destini non si scelgono: "Volevo fare l'attore e il set, alla fine, è diventato la mia casa. Non posso farne a meno, ma se si guarda intorno magari penserà che io sia pazzo".

Preferisce la lamiera alle pareti?
"Non riesco a rinunciare alla routine del circo. Alle notti in bianco, alla possibilità di interpretare ruoli che nella vita non potrei neanche sfiorare, all'adrenalina e alle voci dei macchinisti romani: "Ahò, il binario 'ndo l'hai messo?"".

Senza il lavoro si sente perduto?
"Dopo cinque mesi inizio a dare segni di squilibrio. In assoluto sarei un animale abitudinario, ma il cinema mi costringe ad andare altrove. Offre un'incertezza di prospettive che rende schiavi. È come essere innamorati di una puttana".

Le daranno del maschilista.
"Amo le donne. Rivendico solo le differenze tra i sessi. Essere diversi non significa ritenersi migliori".
All'epoca del Centro sperimentale di cinematografia, la sua classe era mista.
"Ragazzi e ragazze di talento. Eravamo dodici, quando arrivò la raccomandata di ammissione ero il meno stupito. Non so perché, ma sapevo che sarei stato preso".

È presuntuoso?
"Solo sicuro dei miei mezzi. Se ho paura, mi butto oltre l'ostacolo. Come prima prova ci fecero scrivere un tema. Argomento, la menzogna. Io non avevo mai tenuto neanche un diario. Mi incazzai subito. Diedi in escandescenze. Furono calmissimi: "O lo fai o rinunci. Decidi tu, senza berciare"".

E lei scrisse.
"Certo. Poi sul palco, per la seconda prova, mi appropriai di un testo di Mick Jagger, "Paint it black", lo stesso che improvvisa Bentivoglio nell'incipit di "Turnè"".

Come andò?
"Entrai in scena, iniziai a parlare e non mi fermai più. "Là c'è una porta rossa, la vorrei tinta in nero. Là c'è una fila d'auto e sono tutte nere, coi fiori e col mio amore, che non tornerà più". (Scamarcio ricorda a memoria. Poi, senza aspettare la domanda e a voce bassa: "Il corso poi, neanche l'ho concluso"").

Abbandonò prima della fine?
"Mi offrirono una fiction tv. I miei compagni erano inorriditi. La direttrice, Caterina D'Amico, mi chiese giustamente di scegliere. O dentro o fuori".

Lei scelse di rimanere fuori.
"Con dispiacere. Mi divertivo, imparavo molto, studiavo, colmavo l'ignoranza, vedevo molti film".

Ci pensò a lungo?
"Venti secondi. Bisognava andare, buttarsi in mare, guadagnare qualcosa".

Il momento più difficile di un attore?
"Ciclicamente, durante un film, qualche fase nera capita sempre. Ti arrabbi, sei insicuro, magari scontento, in polemica con qualcuno. Per carattere tendo a superare, a dissimulare, a passare oltre".

È diplomatico?
"Per niente. Detesto i depositari della verità che pretendono di inculcarti la loro ad ogni costo. Ricorda cosa diceva Troisi in "Pensavo fosse amore e invece era un calesse" ai delatori che gli riferivano del tradimento della sua ragazza?".

Onestamente no.
""Perché siete tutti così sinceri con me?". Sono come Troisi, io. Ci sono cose che non voglio sapere. L'anno scorso, durante le prove di Romeo e Giulietta, una ragazza mi ha avvicinato al bar".

Cosa è successo?
"Sono i frangenti in cui un attore è fragile come un cristallo. Ero teso, chiedo un caffè e mi metto in disparte. Lei arriva e un po' professorale mi attacca: "Scusa Riccardo non mi sei piaciuto, posso darti un consiglio?"".

L'ha accettato?
"Neanche per sogno. Ho preso fiato: "Se impariamo a conoscerci, se mi dici il tuo nome, se un giorno diventeremo amici, magari tra un anno accetterò le tue osservazioni. Adesso no. Una cosa brutta, soprattutto in questo momento, non la voglio sentire". Recepisco le critiche, ma rifiuto la provocazione gratuita".

La critica si divide tra chi la ama e chi non le perdona i film tratti dai libri di Moccia.
"Ho girato con Placido, Rubini, Piccioni, Marco Tullio Giordana, Woody Allen e con quel signore magnifico, rigoroso e sognante che è Costa-Gavras. Ma non ho mai pensato di dover dimostrare di essere un bravo attore. Non ho una percezione esatta del personaggio Scamarcio perché io sono Riccardo Scamarcio".

L'apparenza però esiste.
"Sono sensibile e me ne rendo conto. So che ha una sua importanza, ma non me ne occupo. Quando qualcuno mostra di dimenticare il peccato originario e mi affibbia una medaglietta mi arrabbio ancora di più. Giudizi come "Scamarcio, l'attore dei teen-movies, è finalmente cresciuto" mi fanno imbestialire".

Ce l'ha con i critici?
"Ripeto, la medaglietta non la voglio. (Alza la voce). E chi me la dovrebbe dare? Quale club esclusivo? Quale cazzo di Gotha? I giornalisti? Mi volete dare la medaglietta, voi giornalisti? È meglio che taccia, potrei dire cose sgradevoli".

Le dica.
"Questa soddisfazione non gliela do. Sono abitato dall'anima di Carmelo Bene e mi basta così. Il conformismo mi disgusta, preferisco chi non teme di mostrarsi per ciò che è".

Qualche nome?
"Sorrentino, Garrone e Moretti. Dicono cose coraggiose assolvendo al dovere di non nascondersi o sventolare una morale perbenista. Sono tempi strani, spaventati, confusi, in cui agli artisti viene chiesto di snaturarsi. Siccome i politici deputati al pensiero latitano, noi dovremmo interpretare la loro parte? Ma capisce cosa si pretende da noi? È mostruoso".

A proposito di politica, lei vive al Colosseo, come Scajola.
(Ride) "Ma io ne sono consapevole. A me e a Valeria Golino, la mia compagna, la casa non ce l'ha pagata nessuno. Abbiamo un mutuo. Non per questo ci sentiamo dei santi".

Ci risulta che i suoi rapporti con Ferzan Ozpetek siano tesi.
"Ora siamo amici. Litigammo sul set di "Mine vaganti". Dopo 48 ore di riprese, decise che mi sarei dovuto tagliare i capelli. Dal mio punto di vista significava buttare all'aria due giorni di impegno. Ognuno urlò a brutto muso le proprie ragioni, costringendo Procacci, il produttore, appena arrivato sul set, a dividerci. Domenico era turbato: "Ma non andava tutto bene?"".

Discute con tutti i registi?
(Ride) "No, non sempre. Con alcuni vado d'accordo fino alla noia. Renato De Maria è spiritoso, autoironico e incline all'ascolto e alla sperimentazione. Abbiamo girato per mesi una fiction e tutte le sere, io, lui e il direttore della fotografia Marco Onorato finivamo per ridere fino a star male".

"Il segreto dell'acqua", in onda sulla Rai. Lei interpreta un commissario di Polizia.
"Tutti gli attori cercano un personaggio e il mio Caronia, contraddittorio, pieno di ombre e lontanissimo dall'eroe classico, lo è. È moderno e antico, ha le intuizioni del Don Ciccio Ingravallo di Gadda, la sua disillusione e le debolezze dell'uomo comune. Si ribella ai superiori, lo sbattono in periferia e inseguendo un'inchiesta sull'acqua finirà per indagare su se stesso".

Al cinema la lanciò Lucio Pellegrini. Il suo "Ora o mai più" prendeva spunto dal G8.
"Anche il lavoro che sto girando adesso, "Cosimo e Nicòle", di Francesco Amato, si ispira a quei fatti. I protagonisti si incontrano fuggendo dalla Polizia nel 2001 e si ritrovano, liberi e incapaci di assumersi la responsabilità di vivere nel sistema organizzato della nostra società incivile".

Incivile?
"Incivilissima. Ci si ferma alla superficie e alla scenografia, come accadde anche al G8. Genova, nel 2001, era un set di guerra. E i black block erano funzionali a quella rappresentazione".

Li difende?
"Difendo la possibilità di offrire una lettura diversa. Nel bilancio di quella vergogna si è preferito puntare l'attenzione sulle vetrine spaccate e non sulla nascita di un movimento d'opinione ostile al capitalismo. La violenza mi ripugna ma forse, con modalità discutibili, i barbari in maglietta nera dicevano qualcosa di non ovvio".

Lei cosa ha capito?
"Che c'è molta ipocrisia. Per tutelare gli interessi dell'Occidente bombardiamo senza sosta, se abbiamo di fronte qualcosa che non capiamo o non ci porta vantaggi, condanniamo senz'appello. Non mi piace".

Ogni tanto pensa anche a cose più lievi?
"Mi piace farmi domande, non credo sia un reato. Ho gli stessi amici di vent'anni fa e poi certo, amo anche altro".

Il calcio?
"Moltissimo. Giocavo da trequartista".

Ruolo da incompresi.
"Un universo duro, molte botte, tanti sputi, troppi calci. Per essere professionisti bisogna essere un po' monastici".

Lei non portava il saio.
"Smisi presto e mi è rimasta la passionaccia. Ogni volta che posso, vado a vedere la mia squadra, La Fidelis Andria".

Ora legge Wittgenstein. AI tempi della scuola studiare la atterriva.
"Ho cambiato tre indirizzi, fino a quando mio padre, esasperato, mi ha portato a lavorare con lui. Faceva il grossista di carni. Tagli di bue, polli, frattaglie. Tutti i giorni in piedi, dalle 4 di mattina".

Papà non la voleva attore.
"Ora è felice, mamma lo è sempre stata".

Le sue ammiratrici la assediano, Totti lamenta di non poter camminare in centro.
"Io lo faccio e credo che possa farlo anche lui".

Senza essere fermato?
"Quello è impossibile. Però se Francesco vuole, gli consiglio giorno e orario".

Un'ultima cosa. Come è andata con Woody Allen in "The Bop-decameron?
"Il giorno più bello della mia vita. Abbiamo parlato, lavorato in armonia e ci siamo persino confrontati. Quando abbiamo finito di girare, mi sono avvicinato: "Maestro, se deve, tagli pure la scena", gli ho detto: "Sono contento comunque"".

E lui cosa ha risposto?
"Questo non glielo dirò mai. C'è un limite a tutto, anche al narcisismo".

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