Prima legge dei biocarburanti: per nutrire le automobili o gli aerei, non bisogna affamare l'umanità. Quindi: soia, mais, colza, grano, barbabietola e altre colture agricole commestibili, gentilmente, lasciamo che finiscano sui nostri piatti anziché nei nostri serbatoi.
è da questo imperativo morale e politico che stanno nascendo i biofuel di seconda generazione: quelli che sono d'origine vegetale ma non sottraggono terreni alle colture alimentari. Ad esempio, riciclando l'olio delle fritture o il grasso del pollo. Usando gli scarti. O magari sfruttando l'erba e, soprattutto, le alghe.
Partiamo da queste ultime: le più promettenti, a quanto pare: "L'alga ci offre una biomassa molto speciale e pregiata", spiega Mario Tredici, ordinario di Microbiologia Agraria dell'Università di Firenze e presidente della European Algae Biomass Association: "Contiene olio da cui si può ricavare biodiesel, ma anche carboidrati da far fermentare per ricavarne etanolo, e ancora vitamine e proteine, da cui si possono ottenere mangimi e integratori per l'alimentazione umana. L'alga inoltre è tutta utilizzabile e non si butta nulla: persino la parete esterna che racchiude la cellula si può utilizzare per la produzione di bioplastiche.
Nel futuro c'è certamente una tecnologia basata sulla produzione di "green chemicals" dalle alghe. Quanto ai biocarburanti, le rese delle colture algali sono potenzialmente eccezionali. I nostri esperimenti dimostrano che si può ragionevolmente ritenere di arrivare a produrre 15 tonnellate di olio per ettaro per anno, cioè molto più di quanto si ottiene dal mais, dalla colza e persino dalla palma da olio, che ne produce solo cinque", Quindi, tutto a posto? "No: siamo lontani dal raggiungimento di questo risultato su scala industriale, le rese energetiche sono ancora troppo basse e bisogna ancora individuare i ceppi adeguati, le tecniche più efficienti e quelle più economiche.
Rischiamo che questa straordinaria risorsa, se non siamo cauti, dopo l'entusiasmo della prima ora venga accantonata solo perché ancora non siamo pronti a garantire le sue rese commerciali. L'alga invece offre grandi vantaggi, tra cui quello che la sua coltivazione si può fare direttamente a mare: o lungo le coste o su terreni abbandonati o semidesertici dove è disponibile solo acqua salmastra e che quindi non si possono coltivare. La tecnologia delle alghe marine non occupa terreno e non necessita di acqua dolce".
Il gruppo che fa capo all'Università di Firenze e allo spin off universitario Fotosintetica & Microbiologica srl lavora da tempo allo sviluppo di un fotobioreattore low cost che sta per essere immesso sul mercato, oltre che alla produzione di biocarburanti dalle alghe. A verificare la scalabilità industriale delle coltivazioni penserà nei prossimi anni il progetto Biofat, finanziato dall'Unione europea con l'ambizioso obiettivo di provare la fattibilità della coltura di microalghe marine su dieci ettari di terreno a Cartagena (Spagna) e ottenere 90 tonnellate di alghe per ettaro l'anno.
Nell'attesa che le alghe dispieghino appieno le enormi potenzialità che in molti gli attribuiscono e sperando che gli investitori non si scoraggino prima, i ricercatori battono diverse altre strade per la produzione di altri biofuel che non competano con l'alimentazione umana. Il sindaco di Barcellona, per esempio, ha deciso di aprire una serie di "puntos verdes" in cui è possibile conferire l'olio usato. In poche settimane ha già raccolto quasi 200 mila litri di grassi esausti (per altro molto inquinanti) che potrebbero essere destinati proprio alla produzione di biocarburanti.
In Canada il biodiesel della Energy Innovation Corp verrà prodotto ricorrendo ai semi di lino. Mentre in Ontario la Rentech userà come materia prima gli scarti forestali: il biocarburante prodotto potrà essere utilizzato come propellente per gli aerei e permetterà di risparmiare 600 mila tonnellate di CO2 l'anno.
Negli Stati Uniti invece ci provano con il pollo. La rivincita del pennuto che non può volare è alle porte, visto che potrebbe essere proprio lui a consentire alle compagnie aeree di rientrare nei tetti per le emissioni di CO2 previsti per il 2020 se le sperimentazioni che la Nasa sta conducendo su un DC-8 daranno buoni risultati. Il biofuel, ottenuto a partire da grasso di pollo idrotrattato (acquistato dall'Air Force per l'occasione), è a basso costo e sostenibile sotto il profilo ambientale, ma rimangono da testarne efficienza ed eventuali emissioni.
Con il pollo, è noto, ci stanno bene le patatine fritte: la britannica Greenergy ha annunciato di aver iniziato a produrre biodiesel anche a partire dagli avanzi di cibo, tra cui proprio patatine fritte, torte, paste e altri prodotti alimentari non vendibili (perché scaduti o comunque non conformi agli standard di vendita). L'impianto processerà oli e grassi contenuti nei cibi, li purificherà e infine li convertirà in biofuel ottenendo anche il risultato di ridurre la massa dei rifiuti prodotti dalle aziende del comparto alimentare.
Un approccio completamente diverso da quello portato avanti da Solena, che invece il suo business lo fa proprio a partire dai rifiuti. La compagnia statunitense ha recentemente stretto un accordo con Alitalia per verificare la fattibilità di un impianto da costruire in Italia (forse nell'area di Roma) e in cui produrre jet fuel a partire dai rifiuti urbani. "La tecnologia Solena prevede la gassificazione ad alta temperatura dei rifiuti per la produzione di un carburante aereo alternativo", spiega Roberto Gamerro, responsabile tecnico di Solena Italia. "In pratica, i rifiuti verranno gassificati da una torcia al plasma a quattromila gradi, producendo syngas. Questo gas verrà poi trasformato in carburante per aerei grazie ad un processo noto come Fischer-Tropsch. In carenza di ossigeno i rifiuti non bruciano e vengono trasformati in questo gas di sintesi ricco di idrogeno e ossido di carbonio.
Gli elementi gassificati, restando a lungo ad alta temperatura, si dissociano e così non generano sottoprodotti a catena lunga quali diossine, furani (ossidi di divinilene) e polveri sottili. L'ideale sono i rifiuti solidi urbani ricchi di carbonio, quindi scarti alimentari e ortaggi, erba, legno, carta e perfino plastica.