Tra le cause del declino italiano c'è il fatto che i nostri imprenditori non investono. E usano i profitti o per fare dividendi o per ridurre i debiti. Mentre tagliano l'occupazione. Il 'j'accuse' di un docente di economia

A luglio del 2004, due anni dopo l'introduzione dell'euro, tutte le associazioni italiane d'impresa, dalle banche agli artigiani, dall'industria al commercio, alle cooperative, capirono gli effetti negativi della rigidità del cambio ed elaborarono proposte per un recupero della competitività. Chiesero al governo una riduzione della pressione fiscale e una stagione di investimenti per lo sviluppo. In quello stesso momento, le grandi e medie imprese industriali, pubbliche e private, cioè le 1.800 società censite dall'Ufficio studi di Mediobanca, frenarono sugli investimenti. Altro che rilancio.

Un'impresa si sviluppa se il flusso di cassa che esce per investimenti in impianti e in acquisizioni societarie è più alto dell'autofinanziamento, cioè delle risorse generate dalla gestione interna e non prelevate dai soci; in tal caso, la differenza di fabbisogno viene coperta da indebitamento e da nuovo apporto di capitale dei soci. Se viceversa il flusso in uscita è più basso, si forma un surplus di risorse ma c'è anche declino. Ebbene, negli ultimi sette anni i soci hanno prelevato quasi tutto dalla cassa delle loro società, non solo gli utili di esercizio come dividendi, ma anche parte delle riserve e l'autofinanziamento lasciato è stato bassissimo. Sono stati fatti però ancora meno investimenti. Il surplus di risorse è andato a ridurre i debiti finanziari. Così le imprese industriali italiane stanno bene finanziariamente ma hanno posto le premesse per un forte declino. I livelli occupazionali per un po' hanno galleggiato, poi hanno cominciato a cadere, tra il 2008 e il 2010 del 5 per cento.

Si potrebbe obiettare: ma perché gli imprenditori avrebbero dovuto investire in un paese non più competitivo? perché avrebbero dovuto ampliare le fabbriche, quando conviene di più acquisire società già operanti all'estero, nelle aree con maggiore crescita? La risposta è che, tranne eccezioni, gli imprenditori non hanno fatto né gli investimenti materiali in Italia né quelli in società estere. In carenza di rinnovamento, gli impianti che già esistevano nel 2004 continuano a produrre e a invecchiare. Il rischio di incidenti sul lavoro aumenta. Da un'età media di 12,5 anni nel 2004 hanno raggiunto i 16,5 nel 2010, più del doppio delle multinazionali nel mondo. Via via che gli impianti arrivano alla fine della vita utile, gli ammortamenti in conto economico si azzerano e lasciano più margine per remunerare gli azionisti, nascondendo per ora il declino. Ma è come mungere una mucca vecchia: tra un po' la mucca muore e il latte finisce. Le imprese del cosiddetto Quarto capitalismo, cioè quelle appartenenti a sistemi produttivi locali, né grandi né piccole, internazionalizzate, dal 2004 in poi si sono comportate in modo simile alle medio-grandi industriali, sia pur in misura meno grave.

Recenti statistiche del Servizio studi dell'Abi sulla domanda di prestiti e linee di credito da parte delle imprese confermano che, come si dice in gergo, è il cavallo che non beve: il credito, infatti, va alla ristrutturazione del debito, poi al finanziamento di scorte e capitale circolante, quasi per nulla a investimenti fissi, per nulla proprio a fusioni-acquisizioni (M&A) e ristrutturazione degli assetti societari.
Il grado di utilizzo della capacità produttiva è calato. In genere l'utilizzo degli impianti dovrebbe stare ben sopra l'80 per cento. Nel 2007 stava sul 78 per cento, non male. Nel secondo trimestre del 2009 scese sotto il 65 per cento. A settembre 2011 stava quasi due punti sopra il 70 per cento (fonte Istat). Solo quando l'utilizzo degli impianti tende verso il 100 per cento, si giustificano investimenti di ampliamento per soddisfare la maggior domanda di mercato. Verrebbe allora da pensare che, se non ri-aumenta il grado di utilizzo degli impianti, non sia giusto pretendere il varo di nuovi investimenti. In realtà invece, poiché come abbiamo visto gli impianti vengono lasciati invecchiare, anche i loro prodotti sono ormai al di là del ciclo di vita ed è certo che, se si va avanti senza neanche investimenti in innovazione, la domanda di mercato si sposterà su prodotti nuovi concorrenti e l'utilizzo dei vecchi impianti non ri-aumenterà mai più.

All'inizio degli anni Settanta, l'Italia inseguiva un modello di industrializzazione basato su chimica, fibre, siderurgia, metallurgia non ferrosa, tutti settori che richiedono investimenti in impianti giganteschi. La crisi petrolifera del 1973-74 colpì imprese con una capacità produttiva eccessiva e forte indebitamento. Di quella crisi si fecero carico le partecipazioni statali, la Gepi, le banche in consorzio, una politica industriale governativa centralista. Poi partì una salutare fase di innovazione tecnologica e di aggiustamento strutturale delle aziende. Oggi, l'eccesso di capacità produttiva ha un'origine diversa, da vetustà e obsolescenza, non ci sono più le partecipazioni statali, le banche non hanno occhi per piangere, il governo è bene non ripeta gli errori della politica industriale di allora.

Anche, e soprattutto, se l'Italia non esce dall'euro, bisogna che gli imprenditori affrontino una ristrutturazione delle aziende e un rinnovamento dei prodotti. La strategia non la deve fare la politica, la devono fare i mercati, e gli imprenditori devono scegliere un mix tra operazioni di M&A e investimenti tecnici.

La riforma del mercato del lavoro è urgente, perché nella graduatoria mondiale della competitività (Imd di Losanna) l'Italia nel lavoro sta peggio che nella finanza pubblica o nel fisco. La riforma però deve essere strumentale a una strategia industriale. Se si pretendesse una maggiore flessibilità del lavoro solo per continuare a utilizzare impianti vecchi e per distribuire dividendi a imprenditori attendisti, beh allora sarebbe una bella pretesa oltre che un danno macroscopico. La Cgil non avrebbe mica tutti i torti.
Il governo Monti deve lavorare sui presupposti per la convenienza degli investimenti e per la fattibilità delle M&A. Ma deve anche dare il buon esempio. Monti è ministro dell'Economia, azionista di controllo di società proprietarie di reti infrastrutturali in monopolio naturale (Terna, Snam Rg). Finora i suoi predecessori, di destra o di sinistra, nelle assemblee di quelle società hanno sempre deliberato una massiccia distribuzione di dividendi su utili gonfiati da politiche tariffarie ultra-generose. Quella distribuzione di dividendi al Tesoro equivaleva a un prelievo forzoso. Oggi, le politiche tariffarie sono sempre troppo generose, ma il governo almeno lasci gli utili alle imprese e dia loro direttive affinché li reinvestano nel potenziamento delle reti!

riccardo.gallo@uniroma1.it