In primavera, nel carcere ad alta sicurezza di Carinola (Caserta) vedrà la luce un birrificio artigianale. Un'opportunità di riscatto per chi il mondo è costretto a guardarlo da dietro le sbarre

L'hanno definita "la birra della legalità". Ma nella vicenda la parola chiave sembra piuttosto un'altra: speranza. Perché è un'opportunità di riscatto, un'occasione per tornare a sperare nel futuro, che viene concessa a chi il mondo è costretto a guardarlo da dietro le sbarre.

In primavera, nel carcere ad alta sicurezza di Carinola (Caserta, dove son detenute circa 370 persone, la stragrande maggioranza delle quali reclusa per reati di tipo associativo, e tra esse ben 180 ergastolani) vedrà la luce un birrificio artigianale. Si tratta di un'iniziativa concepita e realizzata dalla cooperativa sociale "Carla Laudante" (fondata dagli amici di Carla, vissuta nella cosiddetta "Terra dei fuochi", e morta di cancro in giovane età), in collaborazione con il comitato don Peppe Diana (costituito nel 2003, per proseguire l'impegno del sacerdote ucciso nove anni prima dai clan di Casal di Principe) e l'associazione Libera, che ha incontrato l'immediato favore della direttrice dell'istituto di pena, Carmen Campi.

"La cooperativa, spiega la responsabile, Alessandra Tommasino, nasce con l'obiettivo di favorire l'inserimento lavorativo dei soggetti più svantaggiati. Noi operiamo in una terra in cui per troppo tempo la camorra ha inquinato l'ambiente, l'economia e persino le coscienze. E riteniamo sia giunta l'ora di riprenderci il maltolto. Lo si fa già con i beni confiscati, sottratti alla criminalità organizzata e restituiti alla collettività: bisogna cominciare a farlo anche con i detenuti. Aiutandoli ad uscire dal sistema dell'illegalità, dalla logica brutale e devastante della camorra. Siamo un'impresa sociale, che investe nel capitale delle relazioni umane e nella fiducia, offrendo una nuova prospettiva esistenziale rispetto ai percorsi tracciati dalla criminalità organizzata".

Il progetto riguarderà l'intera filiera produttiva e coinvolgerà anche gli ergastolani. Si partirà, dunque, dalla coltivazione biologica dei cereali necessari nei terreni adiacenti i padiglioni dell'istituto. E per questo a gennaio verranno avviati i corsi di formazione sulle tecniche dell'agricoltura, oltre che sui processi lavorazione delle materie prime.

"Il lavoro agricolo, che si fonda su canoni, criteri e tempi stabiliti – spiega Francesco Diana, psicologo e membro della cooperativa - è considerato un vero e proprio trattamento di recupero sociale. Perché abitua al ritmo, al rispetto per se stessi e per il prossimo, favorendo il recupero della dignità ed incidendo sul grado di motivazione personale. Non possiamo credere in un vero riscatto, se non puntiamo al valore rieducativo del carcere. Chi ha commesso errori, deve avere la facoltà di redimersi, di intraprendere un percorso di libertà, quanto meno interiore". Il carcere di Carinola è quello con più alto numero di reclusi che scontano un "fine pena mai", nel Paese. Ma ad oggi, solo una settantina su 370 hanno la possibilità di lavorare, secondo quanto emerso da un'interrogazione parlamentare presentata un paio d'anni fa dalla deputata radicale, Rita Bernardini, eletta nelle liste del Pd.

"Nel carcere, scriveva la Bernardini, sono detenuti 367 uomini a fronte di una capienza regolamentare di 332 posti. E solo 70 detenuti hanno la possibilità di lavorare, peraltro per brevi periodi. Per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria, poi, a fronte della pianta organica che ne prevede 250, ne sono stati assegnati 232. Ma effettivamente in servizio, se ne registrano 211. Inoltre, nell'istituto (che dovrebbe essere una casa di reclusione, ma nella realtà dei fatti è anche un circondariale) sono ristretti ben 160 ergastolani che, convivendo con altre tipologie di reclusi, non scontano la loro pena in uno degli stabilimenti destinati agli ergastolani come stabilisce l'articolo 22 del codice penale: alcuni di loro sono sistemati in cella con un altro ergastolano; altri addirittura in celle da quattro, assieme a detenuti che scontano altro tipo di pene. Il che impedisce evidentemente l'isolamento notturno. Ed è palesemente violato anche il previsto accesso al lavoro obbligatorio, atteso che la quasi totalità non lavora".

Già, perché l'art. 15 dell'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354) individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo, stabilendo che "al condannato e all'internato è assicurata un'occupazione lavorativa". E l'articolo 20 aggiunge che "negli istituti penitenziari deve essere favorita la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. In questo senso, possono essere stipulati rapporti con aziende pubbliche o con aziende private convenzionate e con l'ente Regione, al fine di istituire all'interno degli istituti lavorazioni organizzate o corsi di formazione professionale".

A Carinola il problema è ancora più avvertito, vista la fortissima incidenza dei condannati al cosiddetto "carcere ostativo": ovvero, di coloro i quali – a causa dell'appartenenza alla criminalità organizzata - non possono godere di alcun beneficio penitenziario (assegnazione al lavoro esterno, permessi premio, misure alternative alla detenzione, e così via), a meno che non decidano di collaborare con la giustizia. "L'ostatività – ha scritto uno dei detenuti - laddove riferita all'ergastolo, rischia di trasformarlo in una pena di fatto perpetua, in una sorta di pena di morte viva".