L'interrogativo posto da Michele Ainis, così come quello articolato su Repubblica da Ilvo Diamanti, è di centrale importanza per provare a fornire chiavi di lettura agli stravolgimenti che stanno caratterizzando i sistemi partitici di mezzo continente, ma anche per provare a delineare il modello di governo della cosa pubblica che caratterizzerà gli anni a venire e gli stati nazione che sopravviveranno alla crisi.
È notorio infatti che se l'Europa è oggi straziata da una crisi che ne coinvolge l'elemento economico così come quello politico, istituzionale e di bilanciamento dei poteri, i partiti politici sono caratterizzati da una crisi di più lunga durata.
La crisi di rappresentanza manifestata dal distacco dagli elettorati tradizionali e dagli elettori in generale è un fenomeno con cui i partiti convivono ormai da tempo, mentre il fenomeno nuovo con cui questi si stanno confrontando è collegato alla loro progressiva perdita di autonomia decisionale. La nuova sfida è dunque legata all'impotenza dei partiti di farsi promotori di decisioni politiche autonome e di svincolarsi da un'agenda internazionale imposta dalla crisi finanziaria. Politici, tecnocrati e politici-tecnocrati sono tenuti ad attenersi a tale agenda bloccata, indipendentemente dal loro livello di legittimazione democratica.
In altre parole, la crisi dei partiti si è evoluta ben oltre le tradizionali problematiche di rappresentanza legate alla convergenza tra gli opposti schieramenti e al superamento della differenziazione ideologica, trasformandosi in un problema che ne coinvolge in modo diretto (e forse esistenziale) la capacità di agire.
Il paradosso è quindi che di fronte ad un diktat (quasi non negoziabile) imposto da un sistema di potere "altro", poco importa se chi implementa le misure sia o meno eletto (rappresentante), oppure nominato (tecnico) o entrambe le cose allo stesso tempo (il tecnico-politico).
Chiedersi se la democrazia sia o no possibile senza i partiti richiede dunque una riflessione più generale sul ruolo che i partiti hanno in una democrazia.
Il lettore capirà che stiamo parlando di democrazia rappresentativa e non diretta perché in quest'ultima i rappresentanti non sono necessari.
In teoria politica, e negli scritti di autori come Schumpeter, Robertson, Dahl e Sartori, esistono due modi per definire la democrazia rappresentativa: come metodo (definizione empirica) o come valore (definizione normativa).
Se la si intende come metodo, l'elemento fondamentale è il processo di designazione dei rappresentanti e quindi la competizione tra diversi gruppi. Tali gruppi non devono necessariamente coincidere con i "partiti" nel senso più tradizionalmente noto, ma possono anche essere identificati in gruppi opposti di "esperti", o di cittadini che accettano di competere per l'accesso al potere.
Se invece si definisce la democrazia rappresentativa come valore, allora l'elemento fondamentale diventa un altro: la "rispondenza" (responsiveness) tra elettori ed eletti. Se si concepisce la democrazia come valore, dunque, i partiti non sono solamente gli attori legittimati a competere, ma anche e soprattutto gli agenti preposti a semplificare e rappresentare le domande provenienti dalla società, per trasformarle in azione di governo, e cioè in decisioni politiche concrete.
L'elemento centrale della riflessione è dunque che se si accetta una definizione di democrazia rappresentativa come metodo, allora se ne può ammettere l'esistenza anche in assenza dei partiti, ma non in assenza di competizione. Al contrario, se si pensa alla democrazia come valore, allora i partiti ne diventano gli interpreti principali.
Fino ad oggi, la crisi dei partiti si è declinata in termini di perdita della "rispondenza" tra elettori ed eletti (già minata prima della crisi finanziaria e ben prima dell'era della tecnocrazia), e di indebolimento della competizione tra le forze partitiche (perché la nomina di esecutivi tecnici esclude la possibilità di scegliere tra alternative).
L'elemento sopraggiunto è pero' un altro che poco ha a che fare con la tradizionale crisi dei partiti e molto con la più attuale crisi della finanza e dell'Europa: nel prendere decisioni, e nell'implementare politiche pubbliche, l'arbitrio e lo spazio di manovra dei partiti a livello nazionale si sta riducendo drammaticamente.
La questione verte dunque su tre elementi: i partiti non si confrontano più solo con il problema della responsiveness (rapporto elettori/eletti), nè solo con quello della competizione democratica (tecnici nominati e non eletti), ma si confrontano anche e soprattutto con il crescente problema della riduzione della loro autonomia.
Il margine di manovra si riduce all'interno dei limiti stabiliti da un'agenda internazionale generalmente scollegata dal processo democratico, e di fronte alla quale partiti e tecnocrati sono ugualmente vincolati.
Da questo punto di vista, lo scenario attuale ci mette di fronte a forme di governo e di rappresentanza che non possono essere ricollegate a nessuno dei due paradigmi interpretativi del concetto di democrazia rappresentativa.
Paradossalmente, la retorica dominante (promossa tra gli altri dal Presidente dell'Unione Europea Van Rompuy e dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble) che concepisce "elezioni" e "riforme" come alternative, fa riferimento ad una problematica assolutamente irrilevante. Da una parte, l'opposizione è inconcepibile sotto il profilo normativo, in quanto le riforme possono, e generalmente devono, essere una conseguenza delle elezioni e non una alternativa ad esse. Inoltre, poco importa se le elezioni hanno luogo o meno (come in Italia o in Spagna), poco importa se a implementare le decisioni è un governo rappresentativo o tecnocratico (come in Irlanda o in Grecia), se gli attori non sono liberi di stabilire, definire e orientare la propria agenda.
Schattsneider (studioso dei partiti e della democrazia) scriveva che "la decisione delle alternative è lo strumento più importante che caratterizza il potere politico". Se le alternative non possono essere stabilite, se l'agenda nazionale è subordinata o inglobata in un'agenda supra-nazionale non negoziabile dettata da una teoria economica altrettanto non negoziabile e apparentemente senza alternative, allora poco importa se al potere ci sia un tecnocrate, un imprenditore populista o un leader di partito.
L'autonomia è ridotta per il tecnocrate, per il politico e anche per il politico-tecnocrate, se il potere di decidere le alternative, o semplicemente di occuparsi d'altro è limitato.
In un scenario in cui si accetta più o meno implicimente che la scelta delle alternative è costretta all'interno di un recinto ideologico e politico stabilito altrove, l'esercizio formale della democrazia è senza dubbio possibile anche in assenza dei partiti.
Bisognerebbe però chiedersi che tipo di democrazia è quella in cui l'autonomia della classe dirigente e rappresentante è subordinata all'adempimento di compiti e all'approvazione di pacchetti di politiche sulle quali loro stessi hanno praticamente nessun potere decisionale e di orientamento.
Bisognerebbe insomma chiedersi se ci troviamo di fronte ad una nuova forma di democrazia che può prescindere dai partiti, o se invece ci troviamo di fronte ad un fenomeno radicalmente nuovo, al quale bisognerebbe guardare con strumenti analitici diversi rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati per l'analisi dei sistemi democratici.
(Caterina Froio e Pietro Castelli Gattinara sono Dottorandi di ricerca in Scienze Politiche presso l'Istituto Universitario Europeo di Fiesole)