La tragica morte di Martina, la giovane di 14 anni brutalmente uccisa dall’ex fidanzato, ci ha profondamente scossi. È un evento che, da solo, sarebbe sufficiente a innescare una riflessione collettiva sulla violenza di genere e sul senso dell’amore nei giovani. Eppure, ciò che ha ulteriormente aggravato il dolore per questa vicenda è stato un post vergognoso, pubblicato da un professore di 65 anni, il quale, in un atto di disumanità inaccettabile, ha auspicato la stessa sorte per una bambina di soli 8 anni.
Questo individuo, che ha passato la vita tra i banchi di scuola, dove avrebbe dovuto fornire insegnamenti di civiltà, rispetto e comprensione, ha scelto di scagliare parole come sassi, senza pensare all’impatto devastante che esse portano con sé. Un insegnante, una figura che dovrebbe incarnare l’ideale di educatore e guida, ha offerto un desolante esempio di quanto il linguaggio possa essere avvelenato dall’odio.
Ora la vera inquietudine risiede nel fatto che non si è trattato di un episodio isolato, bensì sia parte di un fenomeno più ampio: una società che, a causa di parole velenose e comportamenti tossici, sta perdendo di vista i valori fondamentali che dovrebbero unirla.
Non possiamo ridurre la questione a una semplice condanna, senz’altro unanime. Questo non basta più. È giunto il momento di una riflessione profonda, di andare in fondo alla questione, il momento in cui dovremmo interrogarci, cercando di capire insieme cosa spinge le persone a diventare odiatori compulsivi online. Come pure quello di combattere una volta per tutte la deresponsabilizzazione sui social favorita spesso dall’anonimato.
È urgente impostare un nuovo approccio al mondo dei social media, dove la cultura dell’odio si propaga come un virus, colpendo in particolare giovani e adolescenti. L’educazione civica digitale deve diventare una priorità nelle scuole, coinvolgendo tanto studenti quanto insegnanti. Solo attraverso un’educazione responsabile potremo sperare di formare una generazione in grado di contrastare e superare questa spirale di violenza e intolleranza.
In questo processo anche noi giornalisti possiamo dare un importante contributo. Troppo spesso i titoli a effetto, violenti, aggressivi, insultanti sono finiti sulle prime pagine dei giornali, nei Tg, nelle homepage dei siti, rimbalzati nelle rassegne stampa come fossero normali. Ma non sono normali. Sono micce. E i social, con la loro furia amplificatrice, fanno il resto. Si parte da un titolo, si arriva a un post che augura la morte a una bambina. È un processo graduale, ma spietato.
«Disarmiamo le parole e disarmeremo la Terra», ha detto Papa Leone XIV ai giornalisti. È da lì che dobbiamo ripartire. Trovare un altro modo per raccontare la violenza, senza esserne complici. Dai femminicidi, alla fame dei bambini a Gaza, alle immagini dei corpi sotto le bombe, alle parole sprezzanti di certi leader politici: non basta più raccontare. Serve un’etica nuova. Serve responsabilità.
E serve, oggi più che mai, una risposta dura e chiara. Il professor Addeo — perché sì, il suo nome è uscito — non può cavarsela con una sospensione. Chi pronuncia parole così disumane non può tornare in cattedra. Non è solo una questione disciplinare. È una questione etica che richiede una sanzione esemplare.