Il decreto sulle liberalizzazioni doveva abbassare i prezzi delle medicine. Invece i negozianti hanno fatto cartello, così tutto è rimasto come prima. E sì che per ogni dieci euro che gli diamo, più di tre vanno in tasca a loro
Qualcosa si muove, ma trovare una
farmacia pronta agli sconti dopo l'entrata in vigore del decreto sulle liberalizzazioni è un'impresa. La legge approvata a fine febbraio dà infatti la possibilità ai farmacisti di intervenire sul prezzo delle medicine con ricetta che il servizio sanitario nazionale non rimborsa e quindi sono totalmente a carico dei pazienti-consumatori. Stiamo parlando di un business che, comprendendo anche i farmaci da banco, ha ormai superato i
5 miliardi di euro, pari al 27 per cento di tutto il mercato del farmaco. Il governo prevede che la possibilità di abbassare i prezzi insieme all'apertura di nuove farmacie si traduca in competizione e in conseguente abbassamento dei prezzi. Ma le cose non sembrano andare in questa direzione.
Federfarma, l'associazione di categoria, e la maggior parte dei farmacisti, anche se molto controvoglia, assicurano che ridurranno i prezzi, per lo meno su una lista selezionata di farmaci di grande utilizzo, sono poche le farmacie, comunali, che in Lombardia e Toscana hanno iniziato a fare sconti, altre li applicano direttamente ai pazienti più che altro sulla base di rapporti personali. E con grande clamore a Milano in piazza Bolivar per la prima volta è arrivata l'offerta "Tavor tre per due", pubblicizzata con manifesti giganti sulle vetrine della farmacia. Una buona notizia? Per le tasche dei consumatori sì, ma c'è anche chi la vede diversamente.
"È la provocazione di un farmacista intelligente", sostiene
Annarosa Racca, presidente di Federfarma: "Che ha messo in luce come una logica puramente commerciale rischia di condurre le persone a consumare più farmaci, non certo a risparmiare sul prezzo. Detto ciò, noi daremo indicazione di fare gli sconti, così come prevede la legge, ma è una logica pericolosa, che non ci appartiene. Negli Stati Uniti, dove il mercato del farmaco è libero, ogni anno più di 100 mila persone muoiono per abuso di farmaci o per un uso non corretto. In Italia invece un buon sistema di controllo da parte dei medici e dei farmacisti limita molto questo fenomeno". La categoria fa quadrato attorno alla necessità di accudire il paziente-consumatore, Ma la legge non mette in discussione il ruolo e la professionalità dei farmacisti, dice solo di applicare gli sconti per introdurre maggiore concorrenza e puntare alla riduzione dei prezzi. Come è accaduto dopo l'apertura delle parafarmacie e dei corner nei supermercati e l'avvio della concorrenza sui farmaci da banco (aspirina, pomate contro il dolore, antitosse, e così via) che in cinque anni ha abbassato notevolmente i prezzi delle specialità più vendute. Ma ha anche eroso circa il 10 per cento del mercato alle farmacie tradizionali e spinto tutti a proporre sconti. Tra pochi mesi, secondo il decreto, dovrebbero aprire 5 mila nuove farmacie che entreranno sul mercato proponendo gli sconti da subito.
"Non ci giurerei. Non conviene a nessuno fare la guerra sui prezzi": ne è convinto
Paolo Zanini, autore del libro "Per un farmacista umanista" e titolare dell'unica farmacia di Mezzocorona, un paese in provincia di Trento con poco più di 5 mila abitanti che, con le nuove regole, per la prima volta dopo cento anni si potrebbe trovare un concorrente sulla porta di casa. "Noi abbiamo fatto la scelta di assumere una persona in più in modo che ognuno di noi abbia del tempo da dedicare ai clienti. Perché è sul fronte del servizio ai pazienti che si giocherà davvero la partita". E, in effetti, sul versante servizi i cambiamenti già si vedono, in molte farmacie si eseguono test clinici per la pressione, per le glicemia, per le intolleranze alimentari, si consegnano i farmaci a domicilio. Per mantenere i margini di redditività puntando sui servizi e sul proprio valore aggiunto.
"Non abbiamo nessuna fiducia nella buona volontà dei farmacisti di contribuire all'abbassamento del prezzo dei farmaci", vaticina
Vincenzo Donvito, presidente dell'Aduc: "Servirebbe una deregulation totale del settore e invece non si è riusciti nemmeno a portare i farmaci che i cittadini pagano di tasca loro nelle parafarmacie, dove lavora un farmacista che ha esattamente gli stessi titoli e la stessa preparazione di chi sta dentro la farmacia".
Insomma, sono pochi a scommettere sul calo dei prezzi. Che pure si potrebbe ben fare. Uno studio del
Cergas-Bocconi rivela che l'Italia è uno dei Paesi europei con un basso prezzo dei farmaci all'uscita dalla fabbrica, ma questo vantaggio si perde quando arriva al cliente. Come è possibile? I fattori sono diversi, da una parte lo Stato, attraverso l'
Aifa, riesce a negoziare buoni prezzi con i produttori sui farmaci rimborsabili ma non su quelli a carico dei cittadini, inoltre sull'importo finale pesa un'Iva al 10 per cento, più alta rispetto ad altri paesi europei (Francia 2,1, Spagna 4, Regno Unito non c'è Iva, Germania 16). Il prezzo è composto in questa maniera: il 66,5 per cento ai produttori, il 3 ai grossisti e il 30,5 ai farmacisti. I farmaci non rimborsabili, poi, possono essere aumentati ogni due anni seguendo l'andamento dell'inflazione programmata.
Un'analisi di
Fabio Pammolli del Cerm di Firenze sottolinea quanto siano i margini di ricavo di grossisti e farmacisti ad essere troppo elevati, non vincolati, liberi da sconti obbligatori e venduti in un sistema dove è assente la concorrenza. E facendo i conti in tasca ai farmacisti, si può calcolare una media del 30 per cento di margine sul totale delle vendite, denari che, sottolineano i titolari di farmacia, servono per pagare l'affitto dei locali, quando non sono di proprietà, il personale, spese generali con un utile netto che si attesta intorno al 10 per cento, un margine in linea con i guadagni di un'azienda in buona salute.
Resta il prezzo all'origine, quello stabilito dai produttori che chiamano in causa i costi vivi per la produzione, il materiale, i laboratori, il personale. Ma nei bilanci delle aziende a pesare sono anche i costi di pubblicità e marketing. Poi ci sono gli investimenti in ricerca e la quota destinata agli studi per i nuovi farmaci. Infine le tasse e i dividendi degli azionisti. Le aziende lamentano un calo generale del prezzo dei farmaci in tutt'Europa ma più significativo proprio in Italia. E secondo Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, i farmaci godono di una sorta di semi-libertà dato che solo gli sconti sono liberi: "Per creare una vera concorrenza, che è auspicabile, bisognerebbe consentire prezzi liberi per tutti i farmaci, compresi quelli rimborsabili. Non si può pensare di liberalizzare se il 70 per cento del mercato complessivo rimane sotto il controllo dello Stato che stabilisce un tetto alla spesa".
Insomma, il dubbio è che i produttori siano messi alle strette quando si tratta di stabilire i prezzi dei farmaci forniti dal Ssn e vadano a recuperare i margini di guadagno persi nelle medicine che il cittadino si paga da sé. Che però sono prodotti essenziali: dalla pillola anticoncezionale agli psicofarmaci. Così, rileva il Censis, finisce che gli italiani spendono per la salute sempre più di tasca propria: la spesa privata per i farmaci è aumentata del 10,7 per cento dal 2007 al 2010 mentre quella pubblica è diminuita del 3,5.