Il luogo comune vuole che il grande fisico fosse un ingenuo quando parlava di cose non scientifiche: come il disarmo e il governo del mondo. Invece, anche in questi campi, aveva una visione lunghissima
Luogo comune: Albert Einstein sarà anche stato il più grande fisico del Novecento (e forse di ogni tempo), ma quando esprimeva le sue idee politiche, soprattutto quelle pacifiste, ah che ingenuo, che velleitario, che sprovveduto, che contraddittorio…
Di questo topos, durissimo a morire, fa piazza pulita Pietro Greco, uno dei migliori conoscitori della vita e delle opere del genio tedesco: in "Einstein aveva ragione" (ScienzaExpress, Milano, 2012, pagg. 304, euro 19,00), infatti, ci conduce attraverso le quattro tappe fondamentali del suo impegno pacifista, dimostrandone l'impegno ostinato, l'adattabilità alle circostanze (la comprensione "scientifica" delle "condizioni al contorno"), la capacità di coniugare un istintivo desiderio di pace con un'acutissima analisi della politica internazionale.
Insomma, altro che "scienziato con la testa fra le nuvole": Einstein fu un «pacifista militante», il «leader di gruppi di scienziati pacifisti politicamente organizzati». E seppe modificare la propria strategia e la propria tattica a seconda delle necessità: fu, infatti, il pericolo nazista che incombeva sul mondo a spingerlo a esercitare pressioni sul presidente degli Stati Uniti per dare così, sia pure in maniera indiretta, il via al Progetto Manhattan. E tuttavia, una volta svanito dall'orizzonte il nazismo, Einstein tornò alla battaglia per il disarmo nucleare con una impressionante chiarezza di prospettive sui mutati rapporti tra scienza e società e addirittura con profetiche visioni sulla necessità dell'unità europea.