Sulcis, le miniere e la miseria

Più di cento donne e uomini che si sono rinchiusi nelle viscere della terra. Nella provincia più povera d'Italia. Una lotta per la vita, la dignità, la speranza

di Michele Azzu

La miseria e la rabbia le puoi trovare anche sottoterra, nel Sulcis Iglesiente, a sudovest di Cagliari, in quella che è la provincia più povera d'Italia. I minatori della Carbosulcis la notte di domenica sono scesi a 407 metri di profondità, nel buio della miniera di Nuraxi Figus, dove rimarranno finché la Regione non sbloccherà 200 milioni di finanziamento per riqualificare il sito. Col progetto Ccs, per la cattura dell'anidride carbonica, che rivoluzionerebbe quella che oggi è solo una miniera di carbone per la vicina centrale dell'Enel.

Quella che va in scena in questi giorni sotto la terra del Sulcis è una lotta per la vita: nelle gallerie sono presenti ingenti quantità di esplosivo. Non è la prima volta che succede, nel 1995 i minatori erano rimasti tre mesi sotto terra, e solo lo scorso dicembre anche gli operai della Rockwool avevano occupato un'altra miniera per 11 giorni. Ora il sito è in mano ai minatori e alle Rsu, che occupano sotto e presidiano sopra, bloccando l'entrata con tre camion di carbone. Sono 468 i dipendenti della Carbosulcis, che rischiano di perdere il lavoro. Poco lontano gli operai dell'Alcoa, che la scorsa settimana hanno bloccato l'aeroporto di Cagliari e si sono tuffati a decine nel porto per fermare i traghetti. Per minatori ed operai il problema è lo stesso: i finanziamenti pubblici sono aiuti di stato illegali per l'Unione Europea. Ma il vero problema è una Regione assente, un governo lontano, la necessità di dover mettere in gioco la propria vita per ottenere un diritto.

Lo scorso gennaio "l'Espresso" era andato nel Sulcis - la provincia più povera d'Italia - per un'approfondita inchiesta economica e sociale, che ripubblichiamo qui di seguito: anche perché da allora, purtroppo, nulla è cambiato se non in peggio.


Poco tempo fa accanto a un presidio di operai c'era uno striscione, consumato dal tempo: "Benvenuti nel Sulcis, terra di mare e di fame". Era appeso su una cisterna ormai corrosa dalla ruggine. Ma qui tutto è in rovina, nel Sulcis, sudovest della Sardegna, provincia di Iglesias-Carbonia, la più povera d'Italia, secondo i dati ufficiali di Unioncamere: 130 mila abitanti, di cui un terzo disoccupati o in cassa integrazione, un altro terzo pensionati.

Qui c'è Portovesme, con le fabbriche Alcoa, Ila e Eurallumina, dove una volta lavoravano in 6000. Alcoa ora vuole chiudere e gli operai, che nel novembre 2009 avevano fatto tremare Roma sotto il peso dei mille elmetti che sbattono a terra all'unisono, minacciano di tornare nella capitale. Dove, dicono, sarà peggio dell'ultima volta.

Ma ci sono anche i commercianti, strozzati dai pignoramenti, che annunciano blocchi come quelli del Movimento dei Forconi in Sicilia. Il senso dell'abbandono delle aziende, nel Sulcis, è racchiuso tutto nelle motivazioni dell'americana Alcoa: «Mancanza di servizi e infrastrutture, costi alti dell'energia, assenza di un governo nazionale affidabile». Vuoti e mancanze a cui gli abitanti di questa regione sono abituati fin dalla nascita.

Qui il welfare sono le donne, i sussidi le pensioni dei nonni. E lo Stato è vissuto come una cosa lontana. Spesso, nel Sulcis, non c'è neanche l'asfalto: «Camminiamo sulla terra battuta», dice Tore Corriga della Rockwool, che coi suoi colleghi da oltre un anno occupa un bus abbandonato all'ingresso della miniera. E se ti guardi intorno non vedi che terra secca e sterpaglie. I capannoni abbandonati, la ruggine, le serrande abbassate, i palazzi col forattino scoperto. Se non cresce nulla è perché la terra, qui, è intrisa di veleni, delle miniere prima e delle fabbriche poi. Ci sono montagne completamente rosse, ma qui non c'è il granito di Arbatax. Il rosso è biossido d'alluminio, e quando tira il vento di levante la polvere si sparge sui terrazzini di Iglesias.

Il Sulcis è una terra poverissima, dimenticata da Dio e dalla politica. Il Sulcis è una terra cava sotto, svuotata di ogni ricchezza, e quello che ne rimane oggi è solo la buccia. Eppure, nonostante tutto, qualcosa di buono resiste da queste parti.

Ci sono gli operai Rockwool, che con una lotta intelligente ed estenuante sono riusciti a riconquistarsi il lavoro. Pochi chilometri più a nord c'è Buggerru, dove il 4 settembre del 1904 i minatori protestarono per le condizioni di lavoro disumane. Morirono in tre sotto i fucili dei soldati, ma l'eccidio portò al primo sciopero nazionale della storia d'Italia. Se poi ti avvicini alla costa, nel Sulcis, il mare è ancora bellissimo e ti ricordi d'un tratto di essere in Sardegna. Le rocce levigate, le spiagge intatte, e, ovunque, i tramonti da cartolina: «Quelli erano l'unico conforto dai finestrini del bus, nei giorni di attesa» racconta ancora Tore, che qui ha passato tutta la vita. Ma dura poco, come nei film, mentre stai nuotando guardi la costa e ci trovi buchi, scalette, condutture scavate nella roccia. Le miniere a Porto Flavia finivano a strapiombo sul mare, e sono lì per ricordarti che non ti sei liberato del vuoto che sta sotto la terra del Sulcis. Nell'ultima provincia italiana oltre un secolo fa cambiò la storia del lavoro, ed è qui che oggi dobbiamo guardare per capire come andranno le cose nel prossimo futuro.

Le miniere. «Cerchi i minatori?» chiede Tore Corriga, leader della protesta della Rockwool. «Eccoci qui». Sono infatti tutti ex minatori gli operai che producevano lana di roccia, un materiale isolante. «Hai presente lo zucchero filato nella ruota?», continua, «noi facevamo lo stesso ma col basalto». Tore ha 50 anni, tutti spesi ad Iglesias a lavorare duro. Lui e i suoi 60 colleghi avevano preso un premio di produzione dietro l'altro, ma nell'aprile 2009 un'email li informa che la Rockwool intende chiudere entro 70 giorni. Iniziano tre lunghi anni di lotta: «Ma chi li ha mai fatti tre anni di protesta così?» si chiede Tore. Prima 14 mesi in presidio ai cancelli, poi occupano il ponte sulla strada statale, e lo riempiono di striscioni e bandiere. Nell'estate 2010 danno vita al festival musicale ROCK(wool), per coinvolgere la cittadinanza, con l'inverno portano un bus abbandonato davanti la miniera e lo trasformano nella loro base.

La vita nel "Rockbus" (raccontata per mesi sull'Isola dei cassintegrati) diventa un secondo lavoro. Gli operai fanno i turni con Nunzio, Fabio, Matteo e Franco. Ignazio, che nonostante tutto indossa la maglietta Lacoste e sfoggia il "ciuffo brizzolato alla Richard Gere", Maurizio che fa il caffè buono, il cane Whiskey che gironzola, una piccola tv per vedere le partite. L'ironia sempre, per scongiurare la disperazione: «Per la Uil abbiamo un solo messaggio: vaffanculo».

Sopra tutto c'è la lotta estenuante con la Regione per rientrare nei corsi di riqualificazione del "piano bonifiche". Sopra tutti c'è Tore, che tiene viva la protesta e il fiato sul collo agli assessori. Gli altri lo chiamano "Il Cé", perché è un rivoluzionario, e anche perché nel bus c'é sempre, scherza qualcuno. Solo un mese fa, l'11 dicembre, gli operai di mille presidi hanno occupato per 11 giorni la galleria della miniera, al buio, perché anche i giovani operai venissero riqualificati. «La nostra è una lotta di tutti, e se si vince si vince tutti» racconta Tore. Alla fine hanno vinto, quelli della Rockwool, e già a febbraio potrebbero tornare a lavorare. Il bus è ancora lì, tutto dipinto, vero e proprio museo della resistenza in mezzo ai veleni del Sulcis.

Le fabbriche. Erano andati in 60 nel  Marzo 2010, gli operai dell'Alcoa, a trovare quelli della Vinyls che occupavano le celle dell'isola Asinara. Quattro ore di autobus e una di traghetto per portare la solidarietà di chi ce l'aveva fatta – nel novembre 2009, infatti, la loro manifestazione a Roma aveva sbloccato la vertenza – a chi aveva appena iniziato la battaglia, al capo opposto della Sardegna.

Erano forti, numerosi e pieni di speranza, quelli dell'Alcoa, coi quattro mori dipinti ovunque e gli elmetti arancioni e bianchi che battevano all'unisono mentre urlavano: "Il lavoro non si tocca!". Portavano con loro anche Tamburino, l'ariete peluche simbolo della forza con cui avevano sfondato il ministero dello sviluppo, come dono per gli operai Vinyls: «Perché dobbiamo poter regalare qualcosa ai nostri figli».

Di tutta quella forza, e quell'entusiasmo, due anni dopo, è rimasto poco, e se sotto le promesse di Berlusconi c'era la speranza che tutto potesse risolversi, ora l'inganno è svanito. Sono mille a lavorare in Alcoa, più i 700 di Eurallumina e i 166 dell'ex-Ila, e se crolla Alcoa, crolla tutto. Tre fabbriche adiacenti, collegate da un nastro trasportatore. «Non è un problema di produttività o di domanda» spiega Rino Barca, rsu Alcoa. «Siamo gli unici a fare alluminio in Italia e la domanda è in crescita». Il vero motivo per cui l'azienda vuole chiudere è l'alto costo dell'energia, a cui il governo ha cercato di mettere una pezza: energia elettrica scontata per Alcoa, combustibili ribassati per Eurallumina. Pezza su pezza, è intervenuta Bruxelles: gli sconti sono aiuti di stato, contrari alle normative europee. Ora, dopo avere sfilato a Cagliari fino alla base americana di Decimomannu, e dopo aver bloccato il bus che portava la Fiorentina alla partita col Cagliari, gli operai Alcoa vogliono tornare a Roma a protestare. Forti come l'ariete che regalarono agli operai dell'Asinara.

I commercianti. Sono 7.000 i "Commercianti e artigiani liberi" del Sulcis che soffrono la crisi, e che proprio da oggi minacciano di bloccare la Sardegna, assieme ai pastori sardi, come il Movimento dei Forconi siciliano. «Non abbiamo nulla da perdere», spiega Andrea Impera, leader del movimento. Lui ha meno di quarant'anni e vendeva caldaie, «ma ora la gente è talmente povera che non può neanche permettersi le stufe d'inverno» racconta. I commercianti chiedono aiuto sui pignoramenti Equitalia. Il 22 settembre, nella zona di "terra segada", sono intervenute le forze dell'ordine e due elicotteri per lo sfratto della famiglia Saiu dall'azienda agricola frutto di una vita di lavoro.

Era il quarto tentativo: nei tre precedenti commercianti e Movimento Pastori Sardi avevano bloccato lo sfratto occupando i cancelli. Ora per la famiglia Saiu è finita, e la stessa Signora Saiu è stata una delle sette donne che il 15 novembre hanno portato avanti uno sciopero della fame davanti la sede cagliaritana dell'agenzia delle entrate. «Ma ti rendi conto che è intervenuto l'esercito» continua Andrea. «Noi chiediamo aiuto allo stato, perché nel Sulcis non si lavora, quindi non si compra e noi commercianti non ce la facciamo a pagare le tasse. E invece ci pignorano la casa» conclude.

L'azienda agricola dei Saiu era costata 600 mila euro ed è stata pignorata per 150 mila. Moltissimi chiedono rateizzazioni, lo stop ai pignoramenti. In molti vorrebbero chiudere la partita Iva ma non ce la fanno, perché anche questo è troppo oneroso. «Siamo alla fame», conclude Andrea: «Bisogna trasformare questo silenzio in un grande rumore di protesta». Come accadde 100 anni fa, a Buggerru, nel Sulcis. Terra di mare e di fame.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso