Ci volevano le "Pussy Riot" per ricordarci che in Russia la libertà di espressione ha dei limiti? Per smascherare la cronica allergia di Putin dei confronti della critica e della verità non bastava forse la lunga lista dei giornalisti uccisi o scomparsi da quando il nuovo Zar è alla guida del Cremlino? Vi dicono qualcosa i nomi di Anna Politovskaja e Natalia Estemirova? Certo gli omicidi, con il loro corollario d'impunità e processi farsa, non sono così semplici da far conoscere e lanciare su You- Tube come i video di ribalda immediatezza punk. Ben vengano dunque le Pussy Riot. Anche perché, al di là dell'opinione che ci si è fatta sulla loro performance, la sentenza tutta politica - due anni di carcere - che ha colpito Nadezhda Tolokonnikova, Yekaterina Samutsevich, Maria Ayokhina, trasformando le tre bambinacce incappucciate (ma nel video non se ne vedono cinque?) in un'icona globale della lotta per la democrazia ci rammenta un'altra verità non meno importante. Ci ricorda che la musica è un'arma potente, l'unica capace di attraversare lingue e culture. "Get Up, Stand Up. Stand up for Your Rights!", alzati e combatti per i tuoi diritti, proprio come cantava Bob Marley, in quella canzone diventata l'inno di milioni di ragazzi che aspirano a una società più giusta. Un'arma di denuncia temuta e terribilmente scomoda specialmente in quei paesi dove i diritti umani e la libertà di espressione sono tabù o comunque "optional" sgraditi al regime di turno.
La Storia riserva esempi in abbondanza in proposito. E non pensiamo solo agli anni oscuri di Zdanov o alle purghe staliniane in cui pare averci precipitato di nuovo l'abnorme condanna subita dalle Pussy Riot. Tornano in mente anche le vicende drammatiche vissute tra gli anni Sessanta e i Settanta da musicisti come Miriam Makeba e Hugh Masekela costretti all'esilio nel Sudafrica dell'apartheid; quelle di Caetano Veloso, Chico Barque e gli artisti del movimento "tropicalista" costretti a fuggire dal Brasile negli anni della dittatura militare; e ancora alla prigione e alle brutali torture subite da Fela Kuti da parte della polizia e culminate con l'omicidio della madre a causa delle liriche incendiarie con cui il re dell'afrobeat prendeva di mira il neocolonialismo e la corruzione imperante nella Nigeria del generale Obasanjo. La lista potrebbe continuare a lungo. Internet all'epoca non esisteva. Le notizie scarseggiavano. E ci sono voluti anni prima di rendersi conto che quel personaggio scomodo e carismatico, chiamato "The Black President", fosse in realtà l'eroe degli oppressi e degli emarginati di un continente intero.
Oggi qualsiasi Carneade postando il suo videoclip su YouTube rischia di diventare in un batter d'occhio una celebrità a livello globale. E ciò vale anche per la cosiddetta canzone di protesta. Anche in questo Internet si conferma un'arma a doppio taglio. Le bufale sono sempre in agguato. Ma in certi contesti geopolitici anche solo tentare attraverso la musica di educare le emozioni, di formare individui in cui la solidarietà e la compassione possa prevalere sull'individualismo o semplicemente parlare d'amore e di libertà, rischia di costare un prezzo molto alto. La tragica fine toccata agli algerini Cheb Hasni e al cantautore cabilo Matoub Lounés trucidati entrambi, negli anni Novanta, dai fondamentalisti islamici del Fis è solo un esempio tra i tanti. Sono trascorsi più di vent'anni da allora. Ma il potere della musica continua a far paura a molti. Non dimentichiamoci che anche oggi in Pakistan e in Afghanistan, nelle aree controllate dai talebani, il solo il fatto di possedere uno strumento può costare la vita. Persino ascoltare musica è considerato un peccato da punire con la morte: come è successo ai 15 uomini e alle 2 donne che, per questo, sono stati decapitati a Musa Qala, a sud di Kabul, domenica scorsa.
Anche Amnesty International ha lanciato l'allarme: solo negli ultimi mesi, i musicisti incarcerati o a rischio di tortura sarebbero una decina. Ma altre decine, si stima, sarebbero i casi sommersi o non pervenuti. Il pretesto è spesso identico: offesa alla religione. Ma la motivazione è sempre politica. Fra le segnalazioni di Amnesty spicca il caso di Alì Jamal, un rapper azero ventiquattrenne finito in carcere a Baku assieme al bassista della sua band, per aver preso parte lo scorso marzo a una manifestazione anti governativa. L'arresto però è avvenuto in estate nel corso del festival di Eurovision, una kermesse canora finanziata e fortissimamente voluta dall'attuale autocrate dell'Azerbaijan, Ali Hasanov. Il rapper avrebbe approfittato dell'occasione per rimarcare davanti a milioni di telespettatori lo spaventoso record di violazioni dei diritti umani perpetrate nell'ex Repubblica sovietica. Via Skype da Berlino, dove è rifugiato attualmente, Jamal ha raccontato al "Guardian" di essere stato pestato a manganellate per quel che ha detto e di aver perduto anche la casa demolita dalla polizia. Qualche ora prima di prendere il volo per Berlino, via Istanbul, il rapper ha postato su YouTube l'ultimo video della sua band, Bulistan. Dove si vede un Ali barbuto che canta aggirandosi tra le macerie della sua abitazione distrutta.
YouTube, Facebook, MySpace si confermano lo strumento privilegiato per cogliere i video-messaggi in bottiglia provenienti da questa galassia sommersa e ricostruirne il puzzle. Così come altrettanto chiaro è il fatto che l'hip hop sia diventato la lingua franca della protesta. Un fenomeno emerso in tutta la sua evidenza al convegno "Musica e rivoluzione" organizzato da Radiotre al Medimex l'autunno scorso. In Tunisia il rapper El General ma anche una giovane artista di formazione "classica" come Badiaa Bouhrizi, che si ispira a Oum Kalthoum; in Libia Mc Swat, in Egitto Ramy Essam… ovunque nell'Islam il vento della primavera araba ha risvegliato la voglia di democrazia e di giustizia sociale i rapper si sono trovati in prima linea. Eppure molti di loro neanche oggi hanno vita facile. In Marocco, ad esempio, continua a far discutere il caso del rapper dissidente Mouad Belghouat (alias "l'haqed", l'arrabbiato), voce simbolo della protesta contro la monarchia di Rabat. L'artista 24enne è finito di nuovo in carcere la primavera scorsa. L'accusa: «Attacco a un corpo organizzato dello Stato», nel caso specifico la polizia. A innescare il provvedimento un video diffuso su YouTube ritenuto oltraggioso, montato da autori sconosciuti sul testo della canzone di Mouad "Klab Dawla" (Cani dello Stato). Una vicenda che ha mobilitato la protesta del popolo della Rete e non solo. È noto infatti che in Marocco, paese islamico considerato tra i più tolleranti, ricco di festival e di eventi culturali, esiste da tempo una battagliera scena hip hop, vedi gli H-Kayen, così come una rovente scena speed-metal, con in prima linea band stile Black Sabbath come i popolarissimi Monster. E si sa che tutti costoro indistintamente, sia nelle canzoni che nei video, puntano il dito sulla corruzione e le riforme mancate dall'attuale sovrano, re Mohammed VI. Non stupisce quindi che a Casablanca, città natale di Mouad Belghouat, si siano svolte per giorni manifestazioni e sit-in per chiedere la sua liberazione.
Ma è in Iran, in Palestina, in Siria che lo scontro per le brigate hip hop e i musicisti non allineati si è fatto necessariamente più duro. Con Mc Gaza, i Dam e i Ramallah Undergroud che continuano a raccontare senza retorica e con humour spiazzante la vita quotidiana e l'ordinaria follia di chi è rimasto prigioniero nella striscia di Gaza. Poi c'è Mohsen Namjoo, polistrumentista iraniano, che dalla Germania dov'è rifugiato da sette anni spedisce in Rete i suoi toccanti video musicali anti-regime ispirati alla poesia Sufi e ai fumetti di Marjane Satrapi. Contro il rapper gli ayatollah hanno emesso una fatwa per apostasia e recentemente un sito religioso ha promesso una taglia di 100 mila dollari a chi lo ammazzerà. Ma il più singolare resta il caso di Ahmz. La sigla utilizzata da un video artista e rapper siriano 22enne, residente a Londra, almeno fino a qualche tempo fa, e che preferisce non rivelare la sua identità, visto che parte della sua famiglia è ancora bloccata ad Aleppo. Ma basta guardare "The Syrian Revolution" o "Syrian Facts", alcuni dei suoi video postati su YouTube per rendersi conto di avere a che fare con un talento fuori dal comune. Le immagini sono pugni nello stomaco. Mostrano le stragi, la macelleria indiscriminata condotta senza tregua dall'esercito di Assad, "l'assassino", nei confronti della sua gente. Le parole, scandite su basi hip hop invitano alla lotta e alla resistenza: «Torture, stupri, omicidi di massa. Ogni giorno li vediamo in tv. Com'è possibile che il mondo assista da mesi a questo massacro senza fare nulla», si chiede? Ma lui, Ahmz, viso scavato, pallore diafano, occhi azzurri ha deciso di fare qualcosa di più. Di unirsi alla rivoluzione. Dalla Turchia ha passato il confine armato di telecamera, cellulare e computer pronto a sparare in Rete altre immagini choc e canzoni. Perché il mondo non dimentichi.