Attualità
17 ottobre, 2013

Hanno superato per la prima volta le auto nelle vendite. E cinque milioni di persone le usano ogni giorno. Prende quota l’Italia in bicicletta. Ecco le novità: da Torino a Lecce

Dove vai se la bici non ce l’hai

Hanno superato i cinque milioni, in Italia, i ciclisti urbani (coloro che usano le due ruote con frequenza nella vita quotidiana). Nel 2012, per la prima volta in mezzo secolo, le vendite di biciclette (un milione 606 mila) hanno superato quelle delle auto (un milione 450 mila) e sarà così anche quest’anno. A Firenze, 270 mila persone hanno seguito la prova su strada dei Mondiali di ciclismo sotto la pioggia battente. A Piacenza, Bolzano e Pesaro circa un terzo degli abitanti usa la bici per spostarsi tutti i giorni. Nella Milano della rivoluzione antitraffico si toccano punte del 15 per cento (Roma è allo 0,4) e le stazioni del bike-sharing sono salite a 187, segnando, il 17 settembre, il primato di 10.495 prelievi al giorno. Con tutto ciò, ci sono persone, anche intelligenti come Francesco De Gregori, che deplorano «l’idolatria delle piste ciclabili». Perché? Che male fanno, nella Repubblica delle soste in doppia fila, delle polveri sottili, dell’assedio dei Suv, della benzina a 1,90 al litro e delle auto pirata un po’ di denari spesi in piste ciclabili?

L’Italia in bici esiste, cresce e fa parlar di sé. Il paradosso è che proprio a Roma, la città di De Gregori, l’esile 0,4 di spostamenti registrati già indica una crescita: nel 2010 era quasi a zero. E, a differenza del predecessore Gianni Alemanno, il neo sindaco Ignazio Marino si impegna di persona, casco in testa, come testimonial del ciclismo urbano (vedere il suo intervento a pagina 67). Rischia la salute, in mezzo al traffico aggressivo, e nel suo staff c’è chi è preoccupato.

Va detto subito: capitali nordeuropee come Amsterdam e Copenhagen offrono statistiche stellari, circa il predominio dei ciclisti sulle auto, vere e proprie rivoluzioni realizzate. Per non dire delle bike highways, le autostrade per bici, potete pedalare in sicurezza da Amsterdam a Utrecht, in un territorio tra i più densi d’Europa. Cose dell’altro mondo. Ma non è che l’Italia stia ferma. Tutt’altro. Le due ruote come alternativa ai tragitti casa-ufficio e casa-studio sono in aumento. Non solo tra i giovani, e con una buona quota femminile. I negozi specializzati sono ormai dei piccoli templi del design. Si diffondono le ciclo-officine alternative. Milano è diventata la capitale italiana delle bici a “scatto fisso”, un fenomeno culturale derivato dai bike messenger americani e basato su valori essenziali e radicali. Per tacere degli happening notturni di Critical mass, militanza nata a San Francisco, sciami di biker anti-auto che occupano pedalando gli assi viari. Ma a parte gli aspetti più controculturali, proprio l’intermodalità tra mezzi pubblici, auto, moto e bici sperimentata nell’Area C di Milano (meno 30 per cento di traffico auto dall’avvio della congestion charge), cui si applica, guarda caso, l’assessore più giovane della giunta Pisapia, Pierfrancesco Maran, ha attirato l’attenzione di diverse città, da Mosca a Bogotà.

L’analisi geografica premia, per ora, il Nord-Est. Per l’aspetto della produzione industriale, come vedremo più avanti; per tradizione e cultura, dalle mondine del Vercellese a Francesco Moser; per orografia e clima. È più facile pedalare nella Bassa emiliana che in Aspromonte, nel centro di Piacenza (record italiano: 33 per cento di spostamenti in bici sul totale) che tra i Sette Colli, sebbene nel 1948 “Ladri di biciclette” fosse ambientato a Roma. A Genova, “città meno ciclabile d’Italia”, i biker fanno proselitismo. In Toscana cresce il ciclismo ricreativo da weekend, ed è notevole il caso Firenze, città impigrita che si va risvegliando grazie al centro storico pedonalizzato dalla giunta Renzi. Sorprende la Puglia, la regione più bike-friendly del Sud: in Puglia cresce la promozione degli itinerari a due ruote in funzione dei cicloturisti stranieri, la Regione lancia i Mobility Days, a Lecce il ciclismo urbano sta diventando una piccola ma solida realtà. Del resto, in aprile si è tenuta, 11 anni dopo Milano, una prima Critical mass anche a Benevento.

Intendiamoci. È ancora lontano il giorno in cui potremo andare da Milano a Torino, o da Lecce a Bari, in bike highway. Ma già oggi si possono percorrere in corsia protetta decine di chilometri di argini di fiumi come l’Adige o il Mincio. E se salite in Sud Tirolo, accanto alle migliaia di ettari coltivati a mele e a vigneti, vi imbatterete ovunque nella parola Radweg, ciclabile in tedesco, dalla val Venosta (Radweg Vinschgau, ben 86 chilometri dal passo Resia fino a Merano) alla val Pusteria alla valle Isarco. Ma l’Alto Adige è terra felix: a Bolzano il 29 per cento dei 105 mila abitanti è classificato ciclista urbano.

Crescono anche le forme associative. «Una quota notevole dei nostri soci», dichiarano al Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, «usa regolarmente la bici». La Fiab, la federazione degli utenti a due ruote, conta 16 mila aderenti. E promuove, con Ciclobby e Legambiente, le uniche rilevazioni periodiche del fenomeno. Il nuovo presidente Fiab è donna, Giulietta Pagliaccio, e spezza una lancia a favore di «Roma città difficile» lodando il sindaco Marino, assai fotografato su una city bike Lombardo bianca: «Fino a poco fa da Roma ci guardavano come extraterrestri, ora è il sindaco a dare l’esempio. È apprezzabile». Marino sta rilanciando le domeniche a piedi. I ciclisti associazionisti hanno richieste politiche ricorrenti: la riforma del codice della strada (l’iter parlamentare è avviato) dove ancora, incredibile, appare il termine “velocipede”; l’adeguamento della segnaletica; le zone a 30 all’ora nei centri storici, e così via. «L’Italia è pronta per una ciclorivoluzione», dichiara ottimista Erasmo D’Angelis, sottosegretario a Infrastrutture e Trasporti.

Per divulgare il Vangelo secondo Shimano (il cambio Shimano è una nota “divinità” ciclistica) sono sempre buoni i testimonial: ieri potevano essere Romano Prodi o Inge Feltrinelli o Gianna Nannini, oggi abbiamo la tatuata Asia Argento, la svedese Filippa Lagerbäck, il popsinger Jovanotti, magari un Fernando Alonso suiveur entusiasta dei Mondiali di Firenze. Ma il ciclismo urbano non è solo un modo più ecologico di spostarsi nelle città insalubri, o un piacere turistico domenicale. Parliamo di un settore industriale dove l’Italia, in un’Europa ridotta a terra di assemblatori di componenti cinesi, ha ancora un ruolo importante. La produzione italiana di cicli è calata, seguendo l’economia recessiva, ma si tratta comunque di due milioni 190 mila unità prodotte. In buona parte assemblando pezzi esteri, ma non solo. Proprio la componentistica bici made in Italy, che resiste e si specializza, vanta una bilancia commerciale fortemente in attivo, 463 milioni di export (più 15 per cento) contro 302 di import. Un estimatore del ciclo italiano è Johan Kramer, console uscente dei Paesi Bassi a Milano, che il 2 agosto, lasciato l’incarico, è tornato in patria in bici via Monferrato, Cuneo, Alpi francesi.

Il nostro tessuto industriale è segmentato. Molti piccoli, pochi grandi produttori. Nel settore agonistico, delle bici da corsa, da gran fondo, da triathlon, l’Italia vanta alcuni tra i marchi più ammirati e richiesti a livello mondiale: Bianchi (oggi controllata dal gruppo svedese Cycleurope), Colnago, Wilier Triestina, Pinarello, Cinelli. Il caso Cinelli è un’appassionante storia di riconversione produttiva e culturale (vedere il servizio da pag. 68). Il 70-80 per cento di questi brand è fatturato all’estero. Anche nel settore mountain bike, il 30 per cento del mercato nazionale, dove primeggiano marchi americani come Trek o Specialized, ci difendiamo. Produttori europei di tradizione come Italia, Germania e Olanda profittano dell’esistenza dei Tdi, i Trade defense instruments, contro le importazioni illegali e le diffuse pratiche di dumping degli asiatici. L’Ancma, sezione ciclo e motociclo di Confindustria, è impegnata a contrastare i comportamenti illegali. Il segmento più nuovo del mercato italiano, che ha raggiunto il 3 per cento del totale, è quello delle bici elettriche; più correttamente: a pedalata assistita. Si tratta di un comparto in rapida crescita, come ha dimostrato la recente fiera Eurobike di Friedrichshafen in Germania.

In questa galassia frammentata emergono pochi pianeti dotati di vera massa critica. Sui 2,2 milioni di cicli prodotti, 1,6 milioni di pezzi escono da cinque stabilimenti in Italia, tutti al Nord: la Masciaghi di Monza (che ha i marchi Coppi e Girardengo), la Esperia di Cavarzere (Torpado e Fondriest), la Denver di Dronero (molto forte nel circuito Carrefour, Coop, Conad) e le due fabbriche nel Cuneese e nel Bergamasco della b’Twin, marca francese assai aggressiva. Una curiosità è che la Esperia si avvale anche del lavoro dei carcerati di Padova. E una sorpresa è che nelle bici b’Twin, uno dei grandi successi internazionali del gigante transalpino Decathlon, c’è stata in questi anni un po’ di Cina, come ovunque, ma anche parecchio ingegno italiano.

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