Pianosa nelle Tremiti, Molfetta, Pesaro, Napoli, Monfalcone nel triestino: migliaia di ordigni della seconda guerra mondiale sono ancora nei fondali del Paese causando danni all'ecosistema e all'uomo. E dopo 68 anni dalla fine del conflitto, le bonifiche spesso non sono neppure iniziate
"È giunto il momento di decidere se restituire agli italiani il meraviglioso paradiso che è l'isola di Pianosa o prendere atto che, invece, è un comodo alibi renderla una riserva integrale per occultare la verità di ciò che è diventata: pattumiera di ordigni bellici".
Stefano Pecorella, presidente del Parco Nazionale del Gargano, usa un'immagine forte. E, in una frase, sintetizza un paradosso che dura dal 1989.
In quell'anno i fondali che circondano l'isola di
Pianosa, nell'arcipelago pugliese delle
Tremiti, venivano dichiarati area marina protetta in virtù di una straordinaria ricchezza naturalistica. Accanto alle tipiche foreste di corallo nero, però, quei fondali ospitano anche una distesa di ordigni della Seconda Guerra Mondiale, la cui pericolosità è riconosciuta ufficialmente sin dal 1972, quando un'ordinanza della Capitaneria di Porto di Manfredonia vietò per motivi di sicurezza la navigazione, l'ancoraggio, la pesca subacquea e la balneazione per una profondità di 500 metri dalla costa.
Le bombe, scaricate a terra e a mare dagli Alleati che avrebbero utilizzato la perla delle Diomedee come campo di addestramento, convivono con la flora e la fauna di un ambiente apparentemente incontaminato. L'impatto degli ordigni sull'ecosistema è stato misurato nell'estate del 2004 dall'Istituto centrale per la ricerca scientifica applicata al mare (l'ex Icram diventato oggi Ispra), con uno studio nell'ambito del progetto Red Cod che ha certificato lo "stress ambientale" a cui sono sottoposte le specie marine analizzate.
"Allo stato attuale non è possibile neanche intervenire con le opere di tutela e valorizzazione previste dagli scopi dell’area marina protetta", chiosa amaro il presidente dell'Ente Parco Pecorella. Eppure un piano per liberare l'isola dalle bombe esiste lo ha abbozzato il Ministro della Difesa
Giampaolo Di Paola nel novembre scorso rispondendo all'ennesima interrogazione parlamentare sul tema: in 35 giorni, ha stimato la Marina Militare, le operazioni potrebbero essere completate. La Difesa è pronta ad anticipare i soldi necessari, ma chiede un coinvolgimento anche degli enti locali e degli altri ministeri interessati.
Gli ordigni che offendono i tesori naturali di Pianosa sono il simbolo di un problema che riguarda altre zone d'Italia, dove amministratori locali e comitati di cittadini invocano da anni interventi di monitoraggio e di bonifica delle migliaia di bombe nascoste nei mari. Una presenza silenziosa ma aggressiva per l'ambiente e pericolosa per salute e sicurezza.
"Tempo fa ci era giunta notizia di un contributo per la bonifica", spiega il sindaco delle Tremiti
Gabriele Fentini, "ma in seguito i fondi sono stati destinati a Molfetta". Cinque milioni di euro: tanto era stato impegnato nel 2006 dai ministeri della Difesa e dell'Ambiente per il "Piano di Risanamento del Basso Adriatico". Oggi quella cifra, che avrebbe dovuto bastare per tutta la Puglia, è stata concentrata per la bonifica dei fondali di un'unica zona. Un altro emblema del "mare di bombe" che giace nelle acque italiane.
Nella acque di
Molfetta è in atto una bonifica da parte della Marina Militare, iniziata solo grazie all'avvio del progetto per la costruzione del nuovo porto commerciale. La ditta incaricata di svolgere in via preliminare la "pulizia" dei fondali da materiali ferrosi, la ATI Lucatelli di Trieste, nel 2006 ha rinunciato all'appalto per i troppi ordigni che intasavano l'imboccatura del porto chiedendo l'intervento del nucleo Sdai (Sminamento e Difesa Antimezzi Insidiosi). Dal luglio 2008 la palla è così passata nelle mani delle Forze Armate impegnate in una bonifica che dovrebbe concludersi entro metà 2014.
il dossier presentato un anno fa in Senato dal
Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche il mare di Molfetta custodisce migliaia di ordigni caricati all'iprite, una sostanza chimica dagli effetti devastanti, contenuta nelle stive delle 17 navi alleate affondate nel porto di Bari durante il bombardamento tedesco del 2 dicembre 1943. Nel 1947 iniziarono i lavori per il recupero degli ordigni, furono recuperate 15.500 le bombe d'aereo e 2.533 le casse di munizioni caricate con il liquido anche conosciuto come "mustard gas". Secondo i piani avrebbero dovuto essere trasportati e affondati da apposite ditte civili a circa 20 miglia dalle coste di Molfetta, in un punto dalle coordinate identificabili. Molte munizioni all'iprite furono però abbandonate lungo il tragitto mentre altre, recuperate accidentalmente dai pescatori, sono state rigettate in mare nel corso degli anni in prossimità del porto.
A causa della corrosione dei fusti e delle bombe presenti sul fondale, la sostanza chimica si sta diffondendo nel mare, con gravi conseguenze sull'habitat, accertate da una ricerca condotta dall'Icram nel 2004, e sulla salute. L'iprite ha un impatto cronico sull'ambiente marino e sono più di 200 i casi finora documentati di pescatori intossicati e ustionati a causa delle esalazioni sprigionate da armi chimiche portate a galla con le reti nel basso Adriatico.
Poche le informazioni pubbliche sulla tipologia di ordigni finora individuati dalla Marina nel porto di Molfetta: il sito internet predisposto dalla Regione Puglia e dedicato ai lavori di risanamento ambientale del basso Adriatico non viene aggiornato dal giugno 2010 e attualmente non è più disponibile.
L'Espresso ha chiesto alla Marina le cifre ufficiali: dopo essere intervenuti su tre quarti dei 1038 punti da bonificare, lo Sdai ha recuperato 47.267 ordigni, 367 dei quali caricati al fosforo. Nessuna bomba a caricamento chimico è stata invece trovata. I punti interessati dall'intervento in corso, però, rappresentano solo una porzione dell'intera area che andrebbe sottoposta a bonifica sistematica.
Nei mari della
Puglia, dopo il secondo conflitto mondiale, sarebbero finiti circa 20.000 ordigni a caricamento chimico oltre a quelli convenzionali: anche bombe e munizioni stoccate nei depositi di Bitonto, di Foggia e di Manfredonia e poi inabissate dagli eserciti alleati. Mentre a poca distanza da Molfetta, a
Torre Gavetone, c'è una spiaggia frequentatissima dove dall'estate 2011 un cartello ignorato vieta la balneazione a seguito di un'ordinanza comunale. Nella zona, sottoposta a bonifica tra il 1996 e il 1999, è stato individuato un possibile deposito di residuati bellici "tombati" nel cemento armato a soli 20 metri dalla costa.
Durante il conflitto in Kossovo del 1999, infine, una mappa diffusa dalla Capitaneria di porto di Manfredonia segnalò 11 zone di sgancio di ordigni inesplosi da parte dei caccia Nato nel
Basso Adriatico. Il documento venne però disconosciuto dal Ministero della Difesa e dal Comando Generale delle Capitanerie di Porto. Un giallo che continua ancora oggi a far discutere, visto che alla fine del conflitto si decise di non procedere a nessuna bonifica nelle acque a sud del Gargano.
La Seconda Guerra Mondiale ha sparso la sua pericolosa eredità anche in altri mari d'Italia.
Nei fondali pesaresi, per esempio. Alcuni documenti militari dimostrano che nel 1944, durante la loro ritirata, le truppe tedesche hanno abbandonato in mare 84 tonnellate di testate all'arsenico e 1316 tonnellate di iprite. Le autorità locali hanno richiesto un intervento di monitoraggio e di bonifica al Ministero della Difesa. Nel giugno 2010, l'ex sottosegretario Giuseppe Cossiga ha risposto che tra il 1945 e il 1950 una bonifica è già stata fatta e ulteriori attività di verifica potrebbero creare "ingiustificato allarmismo". Eppure nel 1951 l'onorevole Tambroni segnalava ancora la presenza di bombe pericolose sui fondali fornendone anche le coordinate. L'ultima novità è un documento prodotto dalla Provincia di Pesaro nel dicembre 2012, una cartografia dell'Arpa regionale frutto di indagini svolte negli Anni Cinquanta, che mostra con chiarezza la presenza di ordigni lungo la fascia costiera compresa tra Pesaro e Fano.
Ancora più remote le possibilità di una bonifica nel
Golfo di Napoli, area che secondo documenti militari americani è stata teatro di massicci smaltimenti di arsenali chimici, bombe al fosgene, all'iprite e al cloruro di cianuro gettate verosimilmente a profondità che oscillano tra i 200 e i 400 metri. Gli ordigni però potrebbero essere stati scaricati anche a profondità maggiori, nell'abisso della Bocca Grande che si spalanca tra le isole di Ischia e Capri.
Anche nel nord Italia il problema degli arsenali chimici abbandonati in mare è affiorato, un po' per caso, durante i lavori di ampliamento di un molo nel porto di
Monfalcone,
vicino a Trieste. Centocinquanta ordigni all'iprite, risalenti alla Grande Guerra, sono stati rinvenuti e recuperati nel 2003 dai sommozzatori dello Sdai.
"E' molto probabile che nella zona ce ne siano altri", afferma
Luigi Alcaro, ricercatore dell'Ispra. E' proprio lui, che ha partecipato alle più importanti campagne di studio sugli effetti degli ordigni bellici negli ecosistemi marini, a spiegare le difficoltà che si incontrano nelle operazioni di monitoraggio e recupero delle bombe. "La bonifica da questi ordigni presenta enormi problemi sia in termini di costi che dal punto di vista tecnico e della pericolosità. Purtroppo in passato si è pensato che la soluzione migliore per smaltire le bombe fosse quella di buttarle in mare, caricando un'eredità pesantissima sulle spalle delle generazioni future".
Eppure nemmeno a Pianosa, dove gli ordigni sono convenzionali e a basse profondità, si è deciso di intervenire. Le bombe sepolte alle Tremiti e negli altri mari d'Italia restano lontane anni luce dall'elenco delle priorità dettato dalla crisi. Libere di distillare i loro veleni, a sessantotto anni dalla fine della seconda Guerra Mondiale.