Mi interessa che il Pd torn i a essere il Pd. Se non c'è il Pd questo Paese è destinato a finire male». Per Walter Veltroni è di nuovo il tempo della battaglia politica, girerà l'Italia con un denso (e duro) pamphlet di 140 pagine ("E se noi domani. L'Italia e la sinistra che vorrei", Rizzoli). «Ho visto dissipare la più bella idea politica degli ultimi vent'anni, avviarsi verso la sua negazione». Nessuna rivincita personale, però: «Non voglio nulla. Negli ultimi dodici anni ho ricoperto un solo incarico nazionale, diciotto mesi alla guida del Pd. Mi sono dimesso da segretario a 53 anni, non mi sono ricandidato a parlamentare, con serenità e compostezza: in quanti lo avrebbero fatto? Però la passione politica non si cancella».
Quella del 2013, scrive, è stata la più grave sconfitta della sinistra in 50 anni: esagera?
«In termini quantitativi è così. Tra il 2008 e il 2013 il Pd ha perso tre milioni e mezzo di voti. Non solo: 5 milioni di elettori hanno smesso di votare per il Pdl, non uno di loro è passato al Pd. Di fronte a questo il Pd avrebbe dovuto discutere a fondo, non dirsi cose autoconsolatorie e provare a mascherare il risultato».
Tutta colpa di Bersani?
«Non mi interessano i processi alle persone. Ma com'è potuto accadere questo disastro, nel momento più favorevole? La mia risposta è che si è rinunciato al progetto originale del Pd. Il Pd è nato con dieci anni di ritardo e con l'obiettivo di risolvere la più grande anomalia italiana: mai il riformismo è stato maggioranza in questo Paese. Aver rimosso questa missione, aver pensato che si potesse vincere corteggiando il centro o con la foto di Vasto, ha fatto venire meno la natura e l'ambizione del Pd. Tra me e D'Alema non c'è mai stato un problema di potere, ma una grande discussione politica. Avremmo dovuto esplicitarla di più, un riflesso pavloviano di unità ce lo ha impedito. Credo che sia possibile conquistare un elettorato mobile con una proposta innovativa. Nel 2008, dopo un governo che solo il prestigio di Prodi aveva tenuto insieme, il giro delle piazze di Grillo lo feci io, recuperammo dodici punti e ottenemmo il 34 per cento».
Perché si dimise, allora, invece di battersi per le idee che adesso rivendica?
«Dopo la grande manifestazione del Circo Massimo la speranza riprese, ma era già cresciuta una mutazione del progetto originario. Restare sarebbe stata una forzatura, una parte dei Ds e della Margherita coltivavano l'idea di tornare alle vecchie identità. Mi sono dimesso per salvare il Pd».
E oggi? Si salverà il Pd al governo con il Pdl?
«Il governo Letta è l'esito di una catena di errori del Pd: dopo le elezioni si poteva proporre un governo del presidente guidato da Emma Bonino, gradita a 5 Stelle e non contestabile dal Pdl. Invece si è andati avanti come se nulla fosse, fino alla tragedia dell'elezione del presidente, culminata con l'agghiacciante applauso per Prodi di elettori del Pd che poi non l'hanno votato nel segreto. Il governo Letta è una necessità, spero abbia successo, deve durare il tempo che serve per fronteggiare la crisi economica e riformare le istituzioni. Ma l'eccezionalità della situazione deve portare a una riforma straordinaria. Un passaggio simile a quello che portò alla Quinta Repubblica francese».
Il semi-presidenzialismo alla De Gaulle? A sinistra è quasi l'anticamera della dittatura.
«Conosco bene le obiezioni: non si può fare il presidenzialismo in un Paese come l'Italia a rischio populista. Ma proviamo a capovolgere il ragionamento: e se il populismo fosse proprio il frutto dell'incapacità della politica di decidere? Le dittature nascono dai governi deboli, non dai governi forti, lo sostenne, ricordo nel libro, Piero Calamandrei, uomo di sinistra, alla Costituente. La forza della democrazia sta nella sua capacità di decidere e di controllare chi decide. Noi siamo un Paese paralizzato da poteri cresciuti nella debolezza del sistema politico, a partire da quelli criminali. Perché noi democratici dovremmo avere paura di dirlo? C'è meno democrazia in Francia o negli Usa? La principale minaccia per la democrazia è la frammentazione, l'instabilità, la lentezza, la vischiosità».
È uno strappo. Ma come si fa ad approvarlo? L'agenda Letta è ben più modesta...
«Il governo dovrebbe presentarsi in Parlamento con una coerente ipotesi di riforma: semi-presidenzialismo, legge elettorale a doppio turno, abolizione delle province, fine del bicameralismo, riduzione dei parlamentari. Non aspetti oltre: l'anno del governo Monti è stato sprecato senza fare queste cose».
Fin dalla battaglia anti-spot lei ha segnalato il pericolo Berlusconi, ora invita la sinistra a liberarsi dall'anti-berlusconismo: perché?
«George Lakoff spingeva i democratici americani a non farsi dettare l'agenda da Bush. In Italia ci abbiamo messo fin troppo a capire cosa fosse il berlusconismo sul piano culturale, quali veleni letali stesse introducendo. Ma poi l'antiberlusconismo si è trasformato in esclusivo programma politico. Nel 2008 io non citavo Berlusconi perché volevo togliergli i voti. Il problema è sconfiggerlo cambiando il terreno del discorso, indicando un'idea di società. È l'unico modo per farlo: Berlusconi vive di anti-berlusconismo, si alimenta dei suoi avversari per rinascere».
Renzi ha detto che non avendo intercettato gli elettori del Pdl, il Pd è stato costretto a fare un governo con gli eletti. Condivide?
«Condivido, ma per vincere l'operazione è più complessa: non devi solo conquistare i voti del Pdl, ma tenere anche i voti della sinistra».
Ma anche. Lei propone la partecipazione dei sindacati alla gestione delle aziende. Però qui c'è il modello Marchionne, la Fiom fuori dalle fabbriche...
«La posizione di Marchionne è l'altra faccia di un sistema bloccato, la reazione, inaccettabile sui diritti sindacali, in assenza di dinamismo. Quanto ha impiegato il sindacato a firmare l'accordo sulla produttività? La contrattazione decentrata non è un'istituzione del diavolo. Serve una nuova alleanza che in un momento drammatico tenga unite le energie del lavoro senza riproporre schemi privi di senso. L'imprenditore è un lavoratore come gli altri stretto tra pressione fiscale e burocrazia. Che male ci sarebbe se i lavoratori partecipassero alla gestione delle imprese come nelle socialdemocrazie avanzate? Perché non tornare a lavorare per un sindacato unico?».
Intanto il Pd si affida a un ex segretario della Cgil, a volte contrario a quelle riforme.
«Guglielmo Epifani è figlio della tradizione di Di Vittorio, Lama, Trentin. La Cgil è sempre stata un passo avanti rispetto al partito nella capacità di immaginare forme nuove di difesa dei lavoratori nel quadro degli interessi generali. Quell'esperienza è vitale, va recuperata».
Epifani blinda il solito gruppo dirigente?
«Per tratto umano e per esperienza, Epifani è la persona giusta per ripristinare le regole interne e consentire un congresso svolto sulla politica e non sui nomi. Ma il congresso dovrà segnare una forte discontinuità. Sancire che è fallita una strategia politica e darsene un'altra, se non si vuole continuare a perdere».
Per salvare il Pd bisogna affidarsi a Renzi?
<«Renzi da solo non basta. E non basta la rottamazione. È una parola che non mi è mai piaciuta, trasforma le persone in rottami. Se ne rende conto anche Renzi, pubblica un libro per andare oltre...».
Il suo candidato per il Pd sarà Chiamparino?
«Ripeto: bisogna fare un congresso sulla politica e non sui nomi. Quello che è certo è che il Pd dovrà avere un'identità propria. Si è pensato che il Pd fosse mettere insieme ex dc e ex comunisti: in questo modo si è prodotto un ex Pd. Essere democratici non è una identità definita per risulta. Se ne sono accorti anche i socialisti europei che stanno pensando, su iniziativa Spd, di superare l'Internazionale socialista. Se penso a cosa mi dissero quando si propose l'Ulivo mondiale...».
Fabrizio Barca è un possibile leader del Pd?
«Con Fabrizio siamo cresciuti insieme. Ha un punto di vista totalmente diverso dal mio, ma mi appassiona discuterne con lui. Per me un partito forte è un partito aperto. Noi invece abbiamo un partito debole e correnti forti. A Roma, per dire, una candidata al Comune si è ritirata perché non ha trovato un candidato con cui fare il ticket per le preferenze».
A Roma darà una mano a Ignazio Marino?
«Se me lo chiedono, volentieri. Ma è una campagna diversa dalle precedenti: i muri sono pieni delle facce dei candidati, si fanno troppe iniziative di corrente. Alemanno è stato un cataclisma per la città. Le ha tolto l'anima solidale, sociale, colta, moderna».
Alla sinistra serve un papa Francesco?
«Serve l'intelligenza di un collegio cardinalizio che nel momento della crisi più devastante ha scelto qualcosa di molto lontano dal modello precedente».
E se tutto fallisce? Se con Letta-Alfano torna il centrosinistra della Prima Repubblica: un grande centro con una sinistra residuale?
«Il pericolo c'è. Ma non per la sinistra, è un rischio per l'Italia. L'Italia non ha bisogno di continuismo, ma di una forte discontinuità. Non potranno garantirla il grillismo, il berlusconismo, il moderatismo, ma solo il riformismo. Senza riformismo l'Italia andrà a morire».