I clan sotto la Madunina, le stragi, il contagio della corruzione... Fabrizio Gatti trasforma in romanzo vent'anni di trame italiane. Un libro che non racconta soltanto la storia della mafia, dei suoi accordi con lo Stato, ma presenta soprattutto il ritratto allo specchio di una nazione che non è mai maturata, non ha mai avuto il coraggio di affermare le proprie colpe, di imparare sui propri errori, di reagire con l'orgoglio dell'onestà

È un romanzo, ma è anche una storia vera: una realtà tanto sorprendente e assurda da apparire romanzata. Anche le inchieste di Fabrizio Gatti, inviato de "l'Espresso", sono fatte così: entrano in mondi diversi, alcuni proibiti, altri sotto gli occhi di tutti senza che nessuno li voglia guardare, svelandone sempre il volto più nascosto e inatteso. Con un gioco di specchi letterario, ora il giornalista si fa scrittore per annodare intorno a un unico filo due decenni di vita da cronista e di trame italiane. "Gli anni della peste" (Rizzoli) parte dalla periferia di Milano, da quel "Fortino" sottratto alla legge nei primi anni Novanta per farne una centrale di spaccio, una prova generale delle Scampia di tutta la Penisola, e poi prosegue dal basso verso l'alto, dalle celle di San Vittore alle poltrone dorate dei palazzi romani.

Lo snodo sono le stragi, quelle che hanno smembrato con l'esplosivo la storia del nostro paese, innestandovi con il terrore l'accettazione di un compromesso inconfessabile che ha lentamente contagiato ogni settore, ogni classe sociale e ogni regione.

Le pagine de "Gli anni della peste" sono ricalcate sulla verità, quella delle sentenze ma soprattutto quella delle testimonianze raccolte dalla voce di boss e investigatori: Gatti ricorre a identità di fantasia per restituire un'anima alle esistenze di boss adolescenti, uccisi prima di poter diventare uomini, mentre non esita a fare nomi e cognomi quando si parla di ministri e politici, senza mai tentennare nella denuncia delle responsabilità. Come quando ricorda il faccia a faccia con il ministro dell'Interno Nicola Mancino nel ferragosto 1993 e quella domanda a bruciapelo: «Ministro, allora le voci su una trattativa tra Stato e mafia secondo lei sono una cazzata?».

A cementare questa contaminazione tra rigore e fantasia provvedono un ritmo serrato e toni narrativi quasi da noir, che comincia con una pistola puntata alla testa per impedire a una ragazza di fuggire da un destino di 'ndrangheta e si chiude con l'ex avvocato d'affari di un padrino palermitano eletto alla presidenza del Senato. Tutti sembrano essere parte di uno stesso morbo, tutti vengono contagiati e si fanno untori. «La peste è quello che abbiamo vissuto, è quello che abbiamo fatto vivere agli altri. E non ce ne siamo nemmeno resi conto. Credevamo che il mondo fosse così. Accecati dai nostri interessi, non conoscevamo alternativa».

È un libro forte e lo si capisce dalle sensazioni che ti lascia addosso. Ti restano un misto di nostalgia, rabbia, dolore ma anche affetto per qualche personaggio. Tocca non solo la sfera delle emozioni, va oltre alla percezione mentale e spirituale, sviluppa sensazioni fisiche, si sente dentro. Il suo effetto sull'organismo somiglia a quello di un ordigno ad alta potenzialità: spaventa e stordisce, disorienta e sconvolge, entra dentro la carne viva, brucia il sangue, genera ferite dolorose.

La scrittura limpida e veloce, la struttura semplice e chiara delle storie in sintonia con un incredibile realismo col quale Gatti descrive dall'interno il mondo della mafia ti fa sentire offeso. Dimenticate i luoghi comuni sugli uomini d'onore: non ci sono personaggi carismatici, padrini convinti della loro impronta criminale, poliziotti dall'innato senso della legalità. Non c'è posto per quella cavalleresca galanteria tra nemici che spesso si incontra nelle fiction televisive, non c'è spazio per stereotipi e semplificazioni.

Questo libro racconta la guerra, non una guerra lontana, ma quella che si svolge a pochi chilometri dal vostro comodo ufficio di Milano. "Chi l'ha detto che viviamo in tempo di pace? Non c'è differenza tra i bambini di questa scuola e i loro coetanei in una città sotto assedio. Guardano dalle finestre e vedono noi. Carabinieri in tuta d'assalto e le mitragliette M12 appese al collo. Pistole nelle fondine dei poliziotti. Furgoni blindati con i vetri oscurati. L'aula bunker a Milano è proprio accanto alla scuola elementare del quartiere. Via Ucelli di Nemi 54. Periferia piatta su una terra gravida di acqua, tra la tangenziale Est e l'aeroporto di Linate. La chiamano così perché è l'aula giudiziaria di massima sicurezza. Il luogo protetto dove la Repubblica processa ora gli imputati per mafia. Un'occupazione temporanea, si diceva. Dai tempi del terrorismo rosso e nero. Il vecchio Palazzo di giustizia non aveva e non ha spazio. Una soluzione provvisoria, sì. Tanto provvisoria che dura da una ventina d'anni. Gli scolari, generazioni di scolari di questo quartiere, crescono in mez zo all'andirivieni di armi e detenuti in manette. Immagini che, se trasmesse in tv, qualsiasi genitore interromperebbe cambiando canale. È come se i bambini di questa fetta di città vivessero ogni giorno con il bollino rosso in basso a destra. E non sono i soli".

Come ogni guerra, quella raccontata da Gatti si basa sulle storie delle persone coinvolte. E altrimenti non poteva essere, perché il funzionamento del meccanismo diventa comprensibile solo quando si conosce ogni sua piccola parte, ogni dettaglio che lo fa muovere, e l'autore lo fa maledettamente bene, entrando nella testa dei personaggi, i ragazzi della "batteria" che vivono nel loro mondo di chi rifiuta perché è stato rifiutato. Spacciano per conto dei grandi capi della 'ndrangheta, tenendo sotto il loro potere un intero quartiere di Milano, sfidando la polizia, creando la propria legalità basata sui valori criminali. Si parte dalle pedine e si ricostruisce tutta la scacchiera, fino ai pezzi grossi. Tanti i neri, pochissimi i bianchi.

«No, non usare la parola governo. Se cerchi un gruppo di persone che si siedono intorno a un tavolo per trattare in nome della mafia e del governo, non le troverai mai. Non esistono documenti che lo dimostrino. Devi invece pensare allo Stato come entità che con i suoi vari apparati va oltre i singoli governi. E su questo purtroppo esistono gravi indizi di reato e di colpevolezza, butta lì e sorride. Queste cose avvengono a distanza. Di là Cosa nostra fa una strage. Di qua la politica cerca di capire perché, per cosa, per come. Fiuti l'aria e ti adegui. I contatti, se esistono, sono individuali. Avvengono sottobanco. È una mentalità dentro cui anche tu hai vissuto. La regola del ricatto di cui hai letto. È proprio questo il significato della parola mafia».

I protagonisti sono ritratti da Gatti con estrema passione e vicinanza: il racconto non respinge, anzi, fa venire voglia di entrare nelle loro vite. Uno di questi è Rocco, un ragazzo della 'ndrangheta, nipote di un uomo autorevole del mondo criminale che rimarrà sconvolto dall'uccisione del suo amico Luca, giovanissimo capo di "batteria". Attraverso questo confronto con la morte e la perdita farà uno percorso straordinario dal carcere alla collaborazione con la giustizia, che si incastona nella storia generale del paese: passa attraverso la cosiddetta "normalizzazione" varata nella seconda metà degli anni Novanta, la fine della mobilitazione contro le mafie e le tangenti, la fine della speranza di cambiare le cose.

C'è una parola di cui gli italiani non sembrano avere compreso bene il significato: la parola è "corruzione". Mio nonno diceva che l'hanno inventata gli antichi romani per conquistare il mondo: la sua era la visione estrema di un anziano dall'impronta culturale anarchica, però come tanti altri motti della sua saggezza siberiana non è del tutto sbagliata. La corruzione fa parte del genere umano: c'è sempre qualcuno che vuole ottenere più degli altri facendo meno fatiche, che vuole dettare le proprie regole e si rifiuta di seguire quelle imposte dalla società, che mette il proprio benessere più in alto della libertà e addirittura della vita altrui. La questione non è la corruzione, ma i suoi confini: in Italia con la corruzione si gioca, come con il fuoco, vedendone soltanto i vantaggi. Ormai è diventata un modello di vita, nelle piccole e nelle grandi cose, nel parcheggiare in seconda fila o evadere le tasse: viene trattata come se fosse parte del carattere nazionale, accompagnandola con un sorriso compiaciuto che non è rassegnazione ma persino condivisione. Mi ha colpito scoprire nelle prime parole di Napolitano dopo la rielezione il monito contro la tentazione dell'«autoindulgenza» rivolto ai «corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell'amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme».

La corruzione e il lassismo scorrono anche nei capitoli di Fabrizio Gatti: sono l'avanguardia di un male più profondo, una peste che è riuscita a infilarsi ovunque. Questo libro non racconta soltanto la storia della mafia, delle sue stragi, dei suoi accordi con lo Stato corrotto, presenta soprattutto il ritratto allo specchio di una nazione che non è mai maturata, non ha mai avuto il coraggio di affermare le proprie colpe, di imparare sui propri errori, di reagire con l'orgoglio dell'onestà. Sono questi gli anni della peste. E non sono ancora finiti.