I titoli più interessanti della narrativa internazionale, dalla commedia sofisticata di Peter Cameron all'ultimo romanzo di Javier Marías, fino a un George Orwell critico letterario
Il talento letterario di Nicholson Baker - scrittore americano, classe 1957 - si è andato affinando negli anni come uno dei più obliqui e originali, quasi sempre in bilico fra tour de force ed eccentricità, la prima cosa essendo inevitabile conseguenza della seconda. Tuttavia è al suo libro d'esordio, "L'ammezzato" (Bompiani, traduzione di Stefania Bertola), che attribuisco il massimo e insieme il meglio del talento di cui sopra. Uscì nel 1988, cioè in un'epoca in cui un po' dappertutto si ritornava alla forma-romanzo con spiccate inclinazioni minimaliste. Baker apparve dentro e insieme fuori da quella "vague". Raccontava eventi così minuti da fare impallidire i precursori francesi del "nouveau roman" e tutta l'estetica molto oggettiva che ne conseguiva. Ma soprattutto ciò che lo distingueva era un sense of humour capzioso e infingardo, capace di trasformare il mondo in un luogo piuttosto ipotetico.
"Il weekend" di
Peter Cameron (Adelphi, traduzione di Giuseppina Oneto) può essere considerato per molti versi una lettura ideale, considerata la stagione. Si tratta di una commedia sofisticata: quattro personaggi in scena e uno - molto ingombrante - che non compare mai benché evocato a ogni piè sospinto, una casa di campagna nei pressi di New York, ceto intellettuale. Il libro è del 1994, l'epidemia dell'Aids è ancora tema bruciante, ma, a prescindere dai dati di superficie, il racconto conserva intatta una certa grazia allusiva e perplessa. Ricorda le tele di un grande pittore come Alex Katz, quella sua luce stupefatta e frontale, ma anche l'ambiente che descrive, l'upper class americana che non smette di sognarsi come diretta discendente di Virginia Woolf. Cameron non possiede lo spirito caustico di Noël Coward, ma in cambio ha il dono della compassione, il che è quasi tutto.
Ammetto che è una mia vecchia passione, un libro che ho letto non so quante volte, e poiché è stato da poco riproposto in una nuova traduzione, non mi pare vero di poter segnalare ancora una volta "Addio a Berlino" di
Christopher Isherwood (Adelphi, traduzione di Laura Noulian). Chi non ha ancora scoperto questo gioiello del secolo scorso (uscì nel 1939), per quelle disattenzioni che possono rendere vana un'intera esistenza, non ha che da accomodarsi: nelle pagine dello scrittore inglese scomparso nel 1986, troverà la terribile ombra della Storia (siamo nella capitale tedesca alla vigilia del nazismo) e il suo dolce veleno, l'insensata gioia della giovinezza e l'erotismo onnivoro che la contraddistingue, e una galleria di personaggi - fra cui la meravigliosa Sally Bowles - che arrivano in linea diretta dal paradiso terrestre della migliore letteratura. Consigliando "Addio a Berlino", da cui sono stati tratti film e spettacoli memorabili (per esempio, "Cabaret" di Bob Fosse), riconosco di sentire una fitta d'invidia per chi non lo ha ancora letto.
Se è vero che gran parte dell'odierna catastrofe culturale è il frutto dell'imbarbarimento linguistico, dovremmo tutti leggere non una ma molte volte i romanzi di
Javier Marías e poiché l'ultimo in ordine di uscita si intitola "Gli innamoramenti "(Einaudi, traduzione di Glauco Felici) consiglio senza dubbio di metterlo in valigia: le vacanze estive sono pur sempre il momento migliore per abbandonarsi alle avventure del cuore, o almeno per riflettervi sopra. Naturalmente, nessuno si aspetti una melassosa storia sentimentale: per lo scrittore spagnolo, ogni innamoramento nasconde un cuore di tenebra, conturbante e pericoloso. La passione amorosa, anzi, dischiude in maniera inevitabile quel luogo interiore, che appartiene a ognuno, in cui si fondono insieme salvezza e dannazione. La storia che Marías imbastisce possiede la precisione dell'alta orologeria svizzera, la sua lingua è uno dei pochi fattori di protezione dai raggi uv dell'attuale volgarità.
Lo so. Lo so che i libri di racconti, in Italia come dappertutto, non incontrano il favore della maggioranza. Del resto, si sa pure che le maggioranze tendono all'uniformità, oltre che alla nefandezza - bisogna pur ricordare che, tanto per fare un esempio, Adolf Hitler andò al potere grazie a una maggioranza. Perciò suggerisco di leggere "Amo la vita" (Bompiani, traduzione di Carla Prosperi, pp. 208, 13,60 euro) della scrittrice americana
Lorrie Moore, perché in questi otto racconti si sperimenta tutto il peso e la difficoltà, e direi anche il dolore, di scelte di vita, che non sempre si accordano con l'esistenza degli altri. I personaggi sono figure solitarie e in bilico, variamente ferite dalla vita e che dalla vita tendono a ritrarsi, pur non rinunciando mai fino in fondo: anzi, sapendo azzardare e rilanciare. Amano la vita, malgrado tutto, si potrebbe concludere. E la amano perché comunque sanno che è l'unica cosa sensata che ci sia toccata in sorte.
Fra i tanti meriti di
George Orwell, c'è da ricordare la sua ammirazione per un romanziere immenso come William Somerset Maugham (di cui ho recentemente segnalato su questo giornale i racconti di "Una donna di mondo", edito da Adelphi). Orwell parla dei suoi debiti letterari verso Maugham in uno dei pezzi raccolti sotto il titolo "Nel ventre della balena" (Bompiani, traduzioni varie). I testi sono curati, in una nuova edizione ampliata, da Silvio Perrella che giustamente ci ricorda come essi siano «la spina dorsale» dell'opera dello scrittore inglese, autore dei celeberrimi "1984" e "La fattoria degli animali". I romanzi, la vita, la passione politica vi si intrecciano in una scrittura che è trasparente come il vetro di una finestra. E sono un'eccellente occasione per ricordarci che la letteratura, essendo per definizione un'arte individuale, è uno dei più potenti antidoti alle tirannie di ogni tinta, genere e grado.
Almeno in teoria, un grande romanzo potrebbe bastare per un'intera stagione, se non per la vita. Sospetto che "I Melrose" di Edward St Aubyn (Neri Pozza, traduzione di Luca Briasco) si candidi al titolo con una certa sicurezza, e non solo per la sua indubbia mole. In realtà, si tratta di quattro romanzi di medie dimensioni, che compongono una tetralogia di lampante bellezza. Molti colleghi narratori, da Patrick McGrath a Jeffrey Eugenides, hanno riservato lodi sperticate al tour de force di St Aubyn. Non resta che accodarsi umilmente. "I Melrose" è un ciclo narrativo di una potenza fuori del comune, che lo candida a essere uno dei capolavori del XXI secolo. Personalmente ho preferito il primo e il terzo pannello, "Non importa" e "Speranza", perché mi pare che lo sguardo di St Aubyn possieda una maggiore incandescenza quando si posa sulle scene d'ambiente che non sui singoli ritratti. Ma sono questioni di lana caprina. "I Melrose" si legge da cima a fondo con stupore, ammirazione e parecchia invidia.
A suo tempo, non avevo capito quasi un'acca del conflitto nell'ex Jugoslavia. Nomi, date ed etnie si confondevano in un calderone giornalistico, che risultava impreciso per non dire altro. C'è voluto il recente romanzo di una narratrice spagnola, per chiarire ai miei occhi ignoranti e distratti tutta la mostruosità di quella guerra, mettendone in fila accadimenti, antefatti, protagonisti - ragioni no, perché non c'è mai ragione per nessuna guerra. "La figlia" di Clara Usón (Sellerio, traduzione di Silvia Sichel) è il racconto di come una ragazza, innamorata del proprio padre che in famiglia è un uomo sollecito e generoso, possa scoprire a poco a poco che quella stessa persona viene pubblicamente definita il "Boia dei Balcani", rivelandole che l'orrore è anche dentro di sé. È il racconto di una guerra che ha radici medievali, implacabilmente ricostruite, e di come il Medioevo sia potuto irrompere alla fine del secolo scorso a due passi da casa nostra.