Negli ultimi trent'anni il reddito della fascia intermedia della popolazione è andato crescendo sempre di meno. Così, la classe sociale che ha trainato il boom ed è stata protagonista del Novecento oggi arranca. Non solo economicamente, ma anche in termini di capacità di immaginare il futuro

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Il Novecento è stato il secolo del ceto medio. Impiegati e bottegai hanno guidato la corsa all’acquisto di case, auto, frigoriferi e lavapiatti trainando l’industria e il benessere generale. Quando si sono impauriti per gli operai in sciopero hanno rinunciato volentieri alla democrazia pur di salvare il sogno quotidiano del decoro e della rispettabilità. Hanno inventato la villeggiatura, il tailleur e la minigonna, il salotto buono, il picnic, il weekend, la messa in piega. Hanno avuto qualche difficoltà nel Sessantotto (più che altro critiche ingenerose e astratte) ma si sono ripresi bene. Poi d’improvviso sono spariti. Al loro posto sono apparsi nuovi ricchi, aggressivi e speculatori, squali di Borsa e professionisti spregiudicati, spesso ai limiti della legge. Che fine ha fatto il ceto medio del quieto vivere e del tranquillo tran tran?

C’è un modo per saperlo. Ed è statistico. Si leva il quinto di popolazione più ricco (dirigenti, manager, grandi imprenditori) e il quinto più povero (lavoratori dipendenti) e si considera il 60% che sta in mezzo. Negli ultimi trent’anni il reddito di questa parte intermedia e maggioritaria della società è quello che cresce di meno. Per motivi diversi. Gli impiegati pubblici e privati (dai colletti bianchi in azienda agli insegnanti) hanno visto diminuire la parte di stipendio legata a premi, incentivi, scatti automatici perché datori di lavoro e Stato li hanno tagliati, mentre le tasse sono cresciute. I commercianti invece hanno subito una doppia concorrenza che ha limato significativamente le loro entrate: la grande distribuzione che si è fatta sempre più aggressiva, moltiplicando la presenza sul territorio e soprattutto la gamma di prodotti in vendita nei supermercati (dai computer al pigiama, ai giornali) e la globalizzazione con l’arrivo di ristoranti e minimarket cinesi, eBay e Amazon.

Il risultato è che in seno al ceto medio crescono differenze (e invidie). A stabilirle sono i grandi investimenti di base: se la casa (o la licenza di taxi o il negozio) l’hai ereditata oppure hai il mutuo sulle spalle. Ma anche i comportamenti: se e quanto riesci ad evadere il fisco. Finisce così per dissolversi quella sensazione di correre tutti nella stessa direzione che aveva contrassegnato la fiducia e l’ottimismo del ceto medio italiano, non solo negli anni del boom ma anche in quelli più difficili della congiuntura e della crisi petrolifera: ricordate la marcia dei 40 mila quadri della Fiat nel 1980 contro gli scioperi e il terrorismo? Oggi sarebbe impensabile.

Non succede solo in Italia, naturalmente. Tutta la crisi finanziaria in cui siamo ancora impelagati nasce da mutui subprime (cioè di seconda fascia, con meno garanzie chieste e ottenute dai clienti) che al ceto medio americano, più abituato di noi a vivere a debito, servono a dimenticare le ristrettezze economiche. Almeno finché i nodi non vengono al pettine. Il ceto medio italiano invece, quando avverte la mala parata, preferisce risparmiare. Mette i soldi sotto al materasso approfittando di un’inflazione bassa che contiene al minimo la loro svalutazione. Ed ecco che i consumi frenano, insieme alla domanda interna e la recessione si avvita su se stessa. Non abbiamo i fallimenti bancari degli Stati Uniti ma non riusciamo a ripartire.

E qui interviene il dato antropologico forse più inquietante. Il tratto fondamentale del ceto medio era la trasmissione generazionale di un modello di vita. Ricordate «Morte di un commesso viaggiatore» di Arthur Miller? Anche l’impiegato o il bottegaio italiano educava il figlio alla fiducia nel futuro, all’intraprendenza equilibrata, all’etica del lavoro e della fatica. Oggi questa speranza si è persa e il ceto medio trasmette ai figli ansia, preoccupazione, disorientamento.

Non è più certo di come sarà il domani e per la prima volta nella storia si affaccia il dubbio che possa essere peggiore dell’oggi: che i figli debbano affrontare più difficoltà dei padri. Per l’identità debole del ceto medio – che non ha mai avuto ideologie di riferimento, come il socialismo – questa perdita di fiducia rappresenta un elemento di crisi essenziale, che distrugge orgoglio e morale.

I dati ci dicono che tutte le società occidentali (meno quelle scandinave) soffrono di una riduzione della mobilità sociale ascendente sia intergenerazionale sia intragenerazionale: vuol dire che sempre meno giovani riescono a salire di livello nel mestiere o nella professione rispetto ai loro genitori e anche nel corso della loro stessa vita. In Italia questa situazione dura ormai da diversi decenni ed è ancora più ferma che altrove. La sensazione di avere sempre meno opportunità danneggia pericolosamente l’appartenenza alla comunità e la condivisione di progetti: ciò che Aristotele chiamava «politica». Quello che annaspa nella crisi è un ceto medio sempre più frammentato e diviso, sempre più vulnerabile alla disperazione. Non è più un ceto, insomma.