Collaborazioni. Convegni. Saggi. ?E apertura all’arte contemporanea. Il direttore del museo, Piotrovskij, spiega la sua strategia. Con il cuore a Venezia

Un semplice appartamento. Cinque vani più servizi, probabilmente un’agenzia lo definirebbe signorile, anche perché siamo a Venezia, nei pressi di piazza San Marco. È il pied-à-terre italiano per “the best museum in the world”, come a San Pietroburgo chiamano l’Ermitage tutti i funzionari e gli addetti, a cominciare da Mikhail Borisovic Piotrovskij, direttore quasi per destino dinastico del “miglior museo del mondo” che suo padre Boris Borisovic Piotrovskij diresse fino al 1990. Un uomo realizzato: famiglia leggendaria alle spalle, studi da orientalista, bibliografia sterminata, lista di titoli e premi che riempie pagine di Wikipedia e persino un pianeta minore che gli astronomi russi nel 1997 chiamarono Piotrovskij in suo onore. O in onore del museo, chissà: le due cose si compenetrano.

Il professor Mikhail ereditò il museo in tempi bui. Nei primi anni Novanta, quando l’ex Unione Sovietica era scossa dalla crisi economica. E lo difese con intelligenza politica, tirandolo fuori dalle secche e rilanciandolo nel mondo grazie allo splendore del Palazzo d’Inverno. Da una parte fu varata una politica basata su buoni rapporti col governo e accordi con altri musei d’Europa; dall’altra un’approfondita attività scientifica.

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Potere e prestigio furono le due colonne della ricostruzione. E soprattutto mai “il passo più lungo della gamba”. Mai una strategia espansionistica in stile nord americano. E mentre Thomas Krens, allora presidente della Guggenheim Foundation, piantava monumentali bandiere di cemento, affrontando muscolarmente la globalizzazione e progettando costruzioni di musei megagalattici in mezzo mondo, Piotrovskij firmava ben più leggeri contratti cartacei e stringeva patti con studiosi e stimati colleghi.

Come scrive Francesco Bonami nel suo ultimo libro (“Curator”, edizioni Marsilio) «oggi lo zar dei musei, Thomas Krens, colui che ha creato il mito facendo costruire il Guggenheim Bilbao e minacciando di farne sorgere tanti altri in tutto il pianeta - in un eccesso di megalomania che a un certo punto fece correre il rischio allo stesso museo di finire in bancarotta - vaga per il mondo offrendo consulenze a chi ancora è disposto a credere che il modello Guggenheim-Krens possa davvero esistere». E mentre lui vaga, lo zar dell’Ermitage sta per spiccare il volo verso la conquista della contemporaneità, con armi leggere.

Per capire come, torniamo al sestiere San Marco e a quell’appartamento signorile di cinque vani più servizi. Domanda: professor Piotrovskij, perché avete lasciato Ferrara, che ospitava una vostra bella sede, e vi siete trasferiti a Venezia? Nel suo inglese diplomatico il professore risponde: «Venezia è una porta sul mondo. Città d’arte per eccellenza: capolavori straordinari, libri, biblioteche... Il posto ideale per un programma che comprende borse di studio, residenze per giovani storici dell’arte, riletture di opere e di artisti sull’onda di quella mostra importante su Sir Denis Manhon, che abbiamo promosso lo scorso anno. Lo studioso del Seicento, ricorda? L’uomo che ha rivalutato il Guercino anche al confronto di Caravaggio. È l’inizio di una collaborazione sapiente tra le collezioni dell’Ermitage e lo straordinario patrimonio italiano: una partnership che non sarà fatta solo di mostre, ma anche di convegni e volumi scientifici. Ne abbiamo in programma ben cinque sull’arte italiana all’Ermitage, il primo uscirà tra breve. E poi a Ferrara il terremoto ha messo in ginocchio tutte le istituzioni pubbliche, la città è stata costretta a concentrare i fondi sulla ricostruzione. Si è inevitabilmente interrotto un dialogo».

A portare Piotrovskij a Venezia in realtà è stata la società di eventi e programmazione di beni culturali Villaggio Globale International, nella persona del fondatore e direttore Maurizio Cecconi: veneziano, uomo di cultura, ex assessore e ora manager diventato ufficialmente partner dell’Ermitage Italia. È grazie a lui che Piotrovskij decide di spostare il quartier generale nella laguna e da lì iniziare un fitto lavoro di gemellaggio e protocolli d’intesa con altre città italiane, preziose alleate della sua strategia: Torino, Firenze, Mantova, Verona. E mentre si stringono accordi rigorosi e scientifici sulle vestigia del passato, si gettano le basi per costruire il futuro dell’Ermitage. «Per finire di rispondere alla sua domanda», conclude Piotrovskij, «devo aggiungere che abbiamo scelto Venezia anche perché è un centro della cultura contemporanea tra i più prestigiosi al mondo».

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Siamo al punto. Alla nuova frontiera del “best museum in the world», quello che a giugno ha aperto le porte alla biennale più scapestrata dell’arte giovane europea, “Manifesta”, che per il suo decimo compleanno si è trovata a doversi confrontare con Rembrandt, Tiziano, Matisse. L’Ermitage l’ha ospitata ma per l’occasione l’ha anche pettinata e rivestita. Parecchi “niet” sono arrivati all’organizzazione, parecchi incontri al vertice si sono prodotti tra il grande curatore Kasper Koenig e il grande direttore del museo russo. Limature, compromessi, discussioni che hanno scatenato da una parte proteste di molti artisti e critici radicali; dall’altra proteste di molti pietroburghesi amici dell’arte e benpensanti viaggiatori che mal sopportano la promiscuità di quelle robe strane con i tesori del Palazzo d’Inverno. «Ignorate questa zozzeria e concentratevi sul boudoir di Caterina la Grande», dice una guida proteggendo il suo gruppone turistico da un’opera di Katharina Fritsch che troneggia tra gli stucchi d’oro e le damascate tappezzerie. Ma il professor Piotrovskij si è assunto tutti i rischi. Ha rassicurato gli animi dei conservatori dichiarando che il suo museo rispetta la tradizione. E come un tempo Caterina Imperatrice amò e promosse l’arte a lei contemporanea, oggi l’Ermitage ama e promuove quell’arte del Terzo Millennio che domani diventerà classica. E ha dimostrato al mondo dell’arte che il suo museo poteva davvero essere un nuovo interlocutore.

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Venezia in questo contesto è luogo strategico. Da una parte sede perfetta per pensosi, costruttivi e complessi simposii sull’arte e i suoi destini (vedi scheda), dall’altra red carpet globale del glamour culturale. Tra una fondazione Prada e un Palazzo Grassi, la Biennale Arte&Architettura e la Mostra del Cinema, una performance e una installazione, l’Ermitage scende in campo, pronto a sfilare sul red carpet del mondo e a candidarsi partner della più stretta ricerca. La prossima mossa è già in cantiere. Data: maggio 2015, in coincidenza con la Biennale d’arte. Titolo di lavoro: “Gotica”. Progetto: una mostra sulle radici internazionali del gotico che parte dalle collezioni medievali del museo e arriva ai nostri giorni. Sede: palazzo Cavalli Franchetti, ai piedi del ponte dell’Accademia (lo stesso luogo che ospitò le celebrazioni della storica e potente Lisson Gallery, vero tempio del mercato).

Il curatore di tanta impresa si chiama Dmitry Ozerkov: giovane vivace e intraprendente direttore del neo-dipartimento contemporaneo dell’Ermitage che ha ospitato “Manifesta” a San Pietroburgo nel General Staff Building, con scalea e trionfale ingresso in pietra, fin troppo imponente e per nulla simile al globale minimalismo da “white cube”. «Non siamo un museo globale», risponde all’osservazione il direttore Ozerkov. «Siamo un museo internazionale, che non perde la sua identità. Ed è consapevole della sua autorevolezza». Cosa che sulla liquida superficie del presente non è sempre un vantaggio. Con la cautela che l’esperienza di studioso insegna Ozerkov (anche lui serissimo storico dell’arte e specialista di incisioni francesi dal XV al XVIII secolo) prosegue: «Dobbiamo stare attenti alla selezione, non possiamo fare un passo sbagliato, acquistare e accreditare opere che non saranno degne in futuro di comparire nelle nostre collezioni. Stiamo entrando in un mondo nuovo: l’ultima cosa che possiamo permetterci è avere la presunzione di conoscerlo già».

Perché l’Ermitage ha soprattutto doveri verso se stesso e la sua storia. È già “the best museum in the world” ma, nella nuova prospettiva lanciata da Piotrovskij, vuol essere molto di più: punto di riferimento, paradigma, luogo dei luoghi. Insomma quel museo universale che nell’era virtuale non ha bisogno di manifestarsi con edifici firmati in ogni continente. Bastano e avanzano il Palazzo d’Inverno, le sue collezioni, più un buon network, un arco temporale che leghi passato e futuro. E infine un appartamento. Meglio se a Venezia, porta d’Oriente.